Blog QUASI UN DIARIO – Una gita a Roma

Una gita a Roma è un piccolo film ma non si vede; somiglia a quelle favole che si raccontano ai bambini per ricordare all’adulto che diventeranno il viaggio a ritroso che un giorno dovranno fare

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DA “QUASI UN DIARIO” DI ANGELO ORLANDO

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La bellezza a volte si nasconde in spazi limitati e troppo spesso, i sensi non riescono più a percepirla. Ecco che però, all’improvviso, arriva l’arte in soccorso.

L’arte è ovunque, si potrebbe cogliere in ogni istante o respiro, soffermandoci su un particolare piccolissimo, oppure alzando gli occhi verso una nuvola, verso un cartoncino con un disco orario, caduto forse da un’auto parcheggiata, trasformato in un orologio da polso allacciato alla mano di una bimba; su un sampietrino bagnato, oppure facendo caso a un piccione che si fa il bagno in una fontana, o perché no, accorgendosi di uno sgabellino rosso abbandonato per strada; guardandoci allo specchio: una ruga in più, una vena più gonfia sulla mano, il cuore che sa e che non riesce a parlare, una pausa, un sorriso di tua figlia all’improvviso o al contrario, quel silenzio in un’esitazione di tua madre.

Ogni cosa che ci riporta al presente così, all’improvviso, ogni secondo che si ferma e che resta come un momento di felicità improvvisa e ingiustificata, ha il potere di ricordarci dell’importanza dell’essere.

Nell’essere si nasconde un granello di felicità immensa: il sonno però ci avvolge. Lo spettacolo della vita apre il sipario ogni giorno e sempre c’è qualcosa o qualcuno che ce lo ricorda, ma c’è un problema: ce ne siamo dimenticati.

E il tempo scorre.

I nostri occhi si stancano e si posano sui percorsi inutili che ci fanno girare a tondo, come in un labirinto senza via d’uscita, dove gli specchi sono appannati e i piccoli traguardi che ci poniamo, ci trasportano lì dove il ricordo si fa sempre più lontano.

Passiamo gran parte dei nostri giorni così, in balia di una guida che ha gli occhi bendati e che ci accompagna come un cane fedele, ma che mai ci indica il cammino giusto.

C’è un film italiano che ha avuto una breve uscita in sala a maggio di quest’anno che racconta la fuga di due bambini, Francesco e Maria che scappano da un treno fermo alla stazione, un treno in partenza e che li avrebbe dovuti riportare alla routine familiare, distante pochi chilometri da una promessa fatta e spezzata diverse volte: una gita a Roma e ai Musei Vaticani.

Francesco proprio non ci sta a tornare a quell’eterna promessa.

Lui c’era arrivato a Roma, insieme alla madre e alla sorella. Solo che un imprevisto fa sì che, appena arrivati, già bisogna tornare. Un imprevisto. La sorpresa di una vecchia zia che arriva a turbare il lavoro e la tranquillità di suo padre e il suo impegno di routine: il suo progetto di lavoro. La pena per la mancata consegna di questo progetto è quantificabile: 6000 euro. Sei e tre zeri. Sei che è la metà di dodici, come i mesi dell’anno, come i cavalieri della tavola rotonda o come gli apostoli, sei come quei personaggi in cerca di autore o come i punti di un enneagramma da unire su un piano orizzontale, lungo il tempo di una fuga, avvolta dall’armonia di una colonna sonora magica, proprio come quelle di Nicola Piovani. Una penale che sembra così alta, tanto da far restare bloccata quella parte maschile che molto spesso si sacrifica all’interno di una prigione dettata dal dover far quadrare i conti e mantenere tutto sulla spiegazione materiale delle cose. E poi quei tre zeri, tre mondi che stanno lì a testimonianza di quelle tre possibilità che ha l’uomo di riconoscersi nella sua interezza, attraverso uno dei più potenti strumenti che ha a disposizione: l’opera d’arte completa e nella sua forma più alta: unendo il cuore, la mente e la pancia (la ragione, l’innocenza pura e l’istinto che riporta sempre all’unità).

Una gita a Roma2

Una gita a Roma è l’opera prima di Karin Proia che appare anche nel film nel ruolo della mamma ed è un film che racconta l’incanto della possibilità del risveglio attraverso lo shock improvviso della perdita. Non bisognerebbe mai dimenticarsi di se stessi, sembra suggerire in ogni istante il susseguirsi dei fatti in questa storia semplice, ma poco scontata.

Prodotto da Raffaele Buranelli, anche lui nel film nel ruolo del padre e interpretato dai piccoli Libero Natoli e Tea Buranelli, una gita a Roma è un piccolo film ma non si vede; assomiglia a quelle favole sacre che si raccontano ai bambini per ricordar loro, o meglio, per ricordare all’adulto che diventeranno, quel viaggio a ritroso che un giorno dovranno fare per tornare consapevolmente a quella purezza.

In questo viaggio, tutti i personaggi che essi incontrano, sono come tanti aspetti da conciliare, da cambiare, da armonizzare, da abbracciare o da aiutare. Proprio come i due vecchietti (fratello e sorella, meravigliosi Philippe Leroy e Claudia Cardinale) che hanno appreso a vivere nella stessa casa senza mai parlarsi; essi comunicano in un’altra lingua e solo grazie a una vecchia lavagna appesa al muro, su cui si lasciano messaggi di rimprovero o battute sarcastiche. Questo silenzio della voce si protrae da sei lunghissimi anni (il sei che ritorna prepotente, numero magico in questa sua eterna corsa verso la sua completezza), per colpa di una chiave smarrita che chissà, forse è proprio la chiave del segreto del tempo. A volte però, il miracolo si compie grazie a un cambiamento improvviso dovuto all’apertura di una porta. Bisogna aver costanza e continuare a versare l’acqua nel nostro giardino anche dove apparentemente è secco e non cresce più nulla. Allora si può trovare la via, grazie alle bricioline che diventano semi e quei semi diventano alberi che ci ricordano di qualcosa da cui un giorno siamo partiti e a cui torneremo.

La via del ritorno infatti si ricorda e non si trova mai per caso, ma solo attraverso nuove percezioni della memoria. Sono i sensi che vanno ampliati, è la percezione costante dell’obiettivo e del tempo limitato che abbiamo a disposizione una volta intrapreso il cammino (“abbiamo molta fretta” ripete costantemente il piccolo Francesco, così come ripeteva il bianconiglio a se stesso prima di attraversare il confine del tempo).

Perché il viaggio verso l’opera d’arte, altro non è che il viaggio che l’uomo compie verso la sua organica completezza. Questo viaggio, ha bisogno di cura, costanza e metodo. Le lacrime della madre quando sente che da qualche parte i suoi figli sono stati ritrovati, sono la rappresentazione di una speranza mai sopita, quella di essersi ricongiunta a se stessa, dopo aver sperimentato l’angoscia del vuoto e della fine.

Niente finisce davvero.

E l’Arte, quella vera, non può vivere senza lo sguardo puro e disincantato della purezza e dell’innocenza. Il cuore puro appartiene all’arte così come l’arte appartiene allo sguardo dell’osservatore libero da ogni forma di auto-giudizio. E solo allora, quando questi due punti sono ricongiunti, si possono dissolvere tutte le abitudini, gli obiettivi costruiti dai drammi e dai giochi della vita che ci vengono riproposti, solo per evitare il dolore di chi sa accorgersi (per grazia ricevuta o per frutto di lavoro costante) di questa perdita possibile, ma nello stesso tempo di un’inevitabile gioia: quella dei nostri piccoli che imparano a muoversi da soli nel mondo e a ritrovare la strada di casa. Essi rappresentano quelle parti di noi stessi da curare sempre, come i fiori di un giardino meraviglioso o come la nostra cara città eterna (Roma come metafora della nostra immensa e ricca città psicologica) che aspetta solo di essere riscoperta, ad ogni costo, anche grazie a una fuga, a un breve viaggio e a un dolce ritorno.

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