VENEZIA 60 – "Last Life in the Universe", di Pen-ek-Ratanaruang (Controcorrente)

Questo terzo lungometraggio del regista thailandese Pen-ek-Ratanaruang, e' un film dall'umorismo noir che gioca con il cinema di genere giapponese, con un occhio di riguardo a quello di Takeshi Kitano

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C'è una strana energia nel nuovo film del cineasta thailandese Pen-ek-Ratanaruang. Presentato nella sezione Controcorrente, Last Life in the Universe, abita infatti in un territorio liminare: da una parte, ci troviamo di fronte a una storia drammatica, che si dispiega lentamente, tra il tempo presente del narratore e quello della storia (che a sua volta si snoda in brevi flashback, quasi dei riavvolgimenti di pellicola, attraverso cui lo spettatore ha la possibilità di addentrarsi nei meccanismi stessi della narrazione). Dall'altra, abbiamo uno sguardo burlone, che gioca con il cinema gangster giapponese, del presente e del passato, con un occhio di riguardo a quello di Takeshi Kitano. Del resto, lo stesso protagonista Kenji, alias Asano Tadanobu, è interprete della prossima pellicola del maestro nipponico, Zatoichi, (in programma proprio il primo settembre, nella sezione Fuori concorso), mentre non mancano citazioni dei suoi ultimi lavori, come quella de L'estate di Kikujiro (quando la giovane protagonista femminile chiede a Kenji se ha scorreggiato, come non ricordare la sequenza del dialogo alla fermata dell'autobus tra "beat" Takeshi e il bambino?). Per non parlare poi dei continui riferimenti ai film sugli yakuza, dell'andirivieni degli interpreti, tra Bangkok e Osaka, e della presenza della lingua giapponese, che diventa quasi un leitmotiv di tutto il film. Un contesto bizzarro, certamente straniante, a metà tra l'omaggio e il divertissement cinefilo, in cui la storia di Kenji, bibliotecario dal losco passato ossessionato dall'idea del suicidio, finisce per assumere dei connotati grotteschi, a tratti persino surreali. Del resto, Kenji cerca di togliersi la vita nei momenti più inopportuni e ciò crea un effetto comico irresistibile, accentuato dal fatto che siano tutti gli altri invece a morire, in maniera improvvisa e brutale. Pen-ek-Ratanaruang gioca infatti a creare punti di rottura, a disorientare lo spettatore, fino a rivelarsi, alla stregua di un prestigiatore, mentre manipolare la scena (vedi la sequenza della casa che all'improvviso si rianima e si mette in ordine). Una regia, insomma, controllata e perfettamente consapevole dei propri mezzi, arricchita dall'impeccabile fotografia di Chris Doyle, già collaboratore di Wong Kar-Wai, il cui umorismo noir non risparmia nessuno, neppure il corpo degli attori, restituito nella sua dimensione più fisica, un po' come accadeva in Public Toilet.

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