VENEZIA 60 – "Ru San (Goodbye Dragon Inn)", di Tsai Ming-liang (Concorso)

Tsai Ming-Liang lavora in modo sempre più straordinario sulla dimensione temporale dello spazio, sulla persistenza ottusa dei corpi e degli oggetti anche di fronte al movimento di trasformazione del reale, alla sua sempre piu' evidente immaterialità'.

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Lo schermo riflette la luce che riceve dal proiettore e che si riverbera sui volti dei pochi ma cangianti spettatori disegnando giochi di ombre in sala. Fin dall'inizio del film di Tsai Ming-liang, lo schermo rovescia in avanti il suo potere. Si presenta come una barriera, un filtro attorno al quale si sviluppa un mondo complesso e articolato. E' un mondo abitato da fantasmi tanto quanto lo è il mondo del film di King Hu che continua a proiettarsi in sala. E' l'ultimo giorno di apertura di una sala cinematografica. Fuori sta piovendo. Gli uomini e le donne presenti in sala sembrano vagare da un punto all'altro di una cadente astronave. Questo ultimo giorno dilata il suo tempo all'infinito lasciando che ogni movimento – dai rituali di avvicinamento tra gli spettatori ai movimenti lenti e sconnessi della donna che gestisce il cinema e che ha una gamba più lunga dell'altra – emerga come presenza, forma determinata e irriducibile di esistenza che ancora si erge contro l'inevitabile fine, il naufragio annunciato del cinema. Tsai Ming-liang lavora in modo sempre più straordinario sulla dimensione temporale dello spazio, sulla persistenza ottusa dei corpi e degli oggetti anche di fronte al movimento di trasformazione del reale, alla sua sempre più evidente immaterialità. Ogni momento e ogni luogo del film (cioè della sala cinematografica che nasce e si sviluppa intorno al film di King Hu che si sta proiettando) hanno una loro durata e una loro materialità. E' in questo – anche – che consiste la capacità del cinema di perdurare anche nel naufragio, anche quando i corpi ormai segnati dal tempo dei due attori si incrociano all'uscita, anche quando il misterioso uomo che fuma in uno scantinato del cinema racconta che quella sala è abitata dai fantasmi. Gli spiriti hanno una materialità che persiste anche quando la fine è incombente, soprattutto al cinema, perché il cinema stesso è un affare di fantasmi. Ecco perché il lavoro sulle molteplici dimensioni del cinema che Tsai Ming-liang porta avanti da sempre raggiunge qui il suo culmine, come "esperienza" di visione, persistenza di un'immagine-movimento che proietta se stessa (i vorticosi movimenti del film di King Hu) in una sala che, nonostante la lughissima inquadratura che Tsai Ming-liang le regala, non sarà mai completamente vuota.

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