"Matrix": l'importanza (anche) della scrittura

La scrittura di “Matrix” (Revolution ancor di più) è così sospesa nell'indecisione e nell'incompiutezza da rasentare una sublime perfezione. “Matrix” formula quesiti estetici senza il benché minimo desiderio di voler soddisfare con alcuna risposta.

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Eccoci giunti alla fine. Al terzo e (fintamente) ultimo episodio della saga più discussa, filosofeggiata, vociferata, mercantilizzata degli ultimi anni. Ci si sono messi in mezzo i fan ma anche fior di filosofi. Slavoj Zizek per esempio cerca di aiutarci a non inciampare nelle trappole filo-sofiste mentre lo stesso ci casca in pieno. Baudrillard  addirittura viene contattato per fare da consulente al secondo episodio, ma rifiuta causa divergenze di pensiero. E allora il popolo dei forum, dei giornali, il mondo degli spettatori si lanciano a capofitto sulle pendici del ragionamento a buon mercato. Teorie più o meno (in)sane si avvicendano tenendo testa alle dichiarazioni (giustamente) sempre poco delucidanti degli stessi Wachowski. I due registi sguazzano nella generazione e proliferazione di segni, erigono un universo che è già di per sé affettazione virtuale, e non di meno cercano, a livello di scrittura, di irrigimentare il meno possibile le variabili narrative. La scrittura di Matrix (Revolution ancor di più) infatti è così sospesa nell'indecisione e nell'incompiutezza da rasentare una sublime perfezione. Non è allora difficoltosa la comprensione della "filosofia" o delle variabili "filosofiche" del film, ma lo è semmai l'addomesticamento di una geminazione semantica che non vuole cercare-trovare una finitezza, una coagulazione definitiva e circoscritta. Ci sono figure che con sicurezza traghettano la saga dal primo al terzo episodio, ci sono poi schegge alla deriva che funzionano solo come perturbazioni e depistamenti. Per esempio la mancata Bellucci, la sua assenza, ossia la sua apparizione fugace in Revolution dopo che in Releoaded aveva partecipato fortemente al costrutto di una sottesa teoria noir, è a dir poco ingiustificata se solo non vedessimo dietro queste falle di sceneggiatura un vero e proprio inganno, una forte deviazione prospettica a favore di un bilanciamento del vuoto piuttosto che del pieno, dell'assenza piuttosto che della presenza. Matrix formula quesiti estetici senza il benché minimo desiderio di voler soddisfare con alcuna risposta. Non sono degni di grande attenzione gli snodi di carattere cristologico dunque, e volendo nemmeno quelli spudoratamente e falsamente marxisti (sono questi i sofismi che lasciamo tranquillamente ad altri), ma semmai sarebbe più lecito soffermarci sulla continua produzione di depistaggio che la sceneggiatura dei Wachowski, con robusto piglio postmoderno, si incanta ad innalzare. Può sembrare paradossale ma forse le qualità di Matrix dipendono da una scrittura che con sapienza alchemica ha saputo pedissequamente-programmaticamente negarsi all'evidenza (e qui siamo lontani mille miglia da Lucas), piuttosto che da una regia che francamente ha sempre lasciato sbizzarrire molto il soggetto coreografico e poco la macchina da presa. Come prova prendete un qualsiasi combattimento di Matrix e poi, se non lo avete già fatto, svezzatevi gli occhi con Tsui Hark. Il grande merito della saga dei Wachowski quindi risiede anche e soprattutto su un programma da indottrinamento letterario che, partendo dalla sceneggiatura, passando per gli stupidi truismi che la stessa ha stimolato e terminando con un merchandising da far impallidire Marx e il "cuore" antiglobal della Matrice, è riuscito a disegnare un imponente e indelebile immaginario. Per dirla con Genette, una grande parte l'ha giocata e la giocherà quel grande e poco virtuale universo che è il paratesto.

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