SS STORY – Mentre sta per arrivare "R Xmas" questa notte in TV c'è "Il cattivo tenente" di Abel Ferrara

Su raiuno all'1.45 il capolavoro maledetto scritto da Ferrara insieme a Zoë Lund. Lo ricordiamo pubblicando il pezzo di Demetrio Salvi dal nostro libro “Abel Ferrara – la tragedia oltre il noir” del 1997

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L'incoscienza del reale
Il cattivo tenente – come quasi tutti i film di Abel Ferrara – ha il potere di farti del male: ti scorre dentro come un liquido dal colore indecente, ti brucia lo stomaco, altera la percezione del reale. C'è un motivo in tutto ciò: Abel Ferrara crea testi che sono il reale.
Il discorso deve necessariamente spostarsi su altri territori, deve accettare di attraversare, innanzitutto, la tenera materia (quasi inerte) del documentario: questi film sono documentari ma, anche del documentario, riescono a stravolgerne le fattezze. Circolano su di uno strato di epidermide ancora più basso, più profondo. Appartengono ad un mondo in cui la macchina da presa non è ammessa.
Questi testi sono un'aberrazione del narrato: giocano nel punto in cui vige l'errore – in tal senso, il loro territorio va a situarsi al di là del verosimile, in un punto vitalissimo in cui la realtà perde coscienza, molla il controllo su se stessa e, in questo modo, diviene definitivamente vera, pulsante, sensibilissima, tenera, troppo vicina alla morte.
Si perde il contegno, le norme di autocontrollo vengono sopraffatte, dilaga la vita in tutte le sue forme aberranti.
E' raro che ciò accada. Al cinema non accade mai. Raramente, molto raramente accade in televisione – in modo del tutto fortuito, del tutto inaspettato: il regista e tutti gli altri stanno lì proprio ad evitare che ciò possa succedere. Sono i guardiani del verosimile, nemico giurato della verità.
Prendete un presentatore televisivo: si nasconde dietro il suo smoking, parla correttamente senza inflessioni dialettali, mantiene uno stretto controllo su se stesso anche nel momento in cui sbaglia o manda a quel paese un cameraman durante le registrazioni in studio. Fa del suo corpo un territorio narrativo che racconta, spiega, dice quello che lui (o chi per esso) vuole che dica. Neanche se scivola, se fa un ruzzolone in diretta, smette di dire quello che si prefigge di dire, di dimostrare. E, noi, come pubblico, siamo abituati a questo: non ci meraviglia tale situazione e, soprattutto, non ci preoccupa.
Nei documentari – per quanto possa sembrare strano – la mistificazione è palese: si vuole narrare qualcosa, va via il resto. Il montaggio costringe il reale all'interno d'una sorta di racconto al quale tutto va riportato.
Abel Ferrara, quale caso unico, fa, della verità, il suo progetto vitale. A rischio di essere messo al bando dalla comunità dei narratori-registi.
Nel Cattivo tenente circola lo stesso umore sanguigno che gira negli altri film, scritti e discussi assieme a St. John ed è evidente che, questa sua ricerca, avviene innanzitutto sulla carta, in fase progettuale, di sceneggiatura. Anche se qui St. John non compare, se ne respira la qualità di scrittura, l'abilità nel trovare soluzioni preziose e profonde a certi misteri della mente umana e divina.
Pornografia e religione: sono i due ambiti all'interno dei quali circola questa vocazione alla verità.
La triade si completa con l'ossessione della violenza: è evidente che qui il pulp sta a Ferrara come Walt Disney sta al marchese De Sade. Il sangue non basta a rendere conto della veridicità del Cattivo tenente. Bisogna scendere più nel profondo, toccare quei tasti dolorosi per lo stesso autore. Per questo non c'è felicità nel suo cinema – sincero, troppo sincero e, la sincerità, è sempre l'anticamera della dissoluzione, della morte perché, si sa, dopo la sincerità, c'è il nulla.

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Bad director
L'idiozia, il vuoto, il denaro: spiazza questo gioco al massacro, questa volontà esibita fin da subito di distruggere un corpo – quello del poliziotto – di metterlo al tappeto fin dalle prima immagini, fin dalle prime battute, per poi ridurlo a brandelli, irriconoscibile. Un meccanismo preciso, senza sbavature, una struttura compatta, senza vuoti, una sequenza barocca di eventi che si ammassano, si sovrappongono, si comprimono gli uni sugli altri.
La triade continua a giocare il suo ruolo egemone: un sesso putrido, una violenza aberrante, un senso del religioso perverso, irriconoscibile.
La droga è il mezzo capace di far attraversare con maggiore chiarezza i limiti del reale: il cattivo tenente deve abbandonare definitivamente il suo corpo, deve precipitare coscientemente in un incubo costruito, pezzo per pezzo, dalle sue stesse mani. Oltre, nell'ignoto, l'unica possibilità di risposta.
Quanto maggiore è la disperazione e il dolore tanto più giustificata sarà l'apertura finale, la speranza che solo un senso seriamente incarnato del religioso può permettere.
Ora, quasi ad invertire clamorosamente quanto finora affermato, è evidente la presenza ossessiva e violenta d'una struttura narrativa ferrea, capace anche di utilizzare perfettamente i meccanismi 'classici' del cinema d'azione per poi manipolarli, violentarli. Solo che, tutto ciò, impressiona ancora di più se confrontato con la carica di realismo documentario che il film si porta dentro (e fuori).
Tutto ciò a partire dalla rappresentazione veramente negativa del protagonista, quasi a voler sfidare fin da subito i dettami del genere poliziesco: la figura del tenente è quanto di peggiore il cinema abbia mai osato mostrare, tenuto conto che, qui, non è certo l'antagonista da vincere, da distruggere. Così facendo i problemi narrativi vengono su come funghi perché è veramente difficile far provare simpatia ed empatia per un personaggio tanto basso, zotico, villano, schifoso. E per gran parte del film, la storia continua ad assicurarci che, questo qui, è proprio l'ultima delle persone che sarebbe piacevole incontrare.
Il suo lavoro, poi, radicalizza tale sensazione: dovrebbe rappresentare l'ordine, la legge, la giustizia. Invece, subdolamente, danneggia nel profondo la struttura della legalità .
Il male, l'abbrutimento, l'idiozia sono elementi che, durante tutto il film, continuano a sommarsi, a sovrapporsi. Il racconto sembra concentrarsi su questa discesa agli inferi, su questo gorgo la cui fine immaginiamo benissimo. Il tenente deve morire, solo nella sua morte c'è la salvezza – dello spettatore, del film. E' la catarsi giusta e necessaria che deve giungere a compimento mediante il corpo sacrificale del poliziotto, vero e proprio capro espiatorio per i peccati del mondo che, in lui, sono realizzati e sintetizzati.
E' difficile trovare, altrove, testi tanto radicali e 'cattivi' nei confronti d'un proprio protagonista: Ferrara non risparmia niente al suo personaggio fino a macchiarlo del più ridicolo dei peccati, il gioco d'azzardo (vero e proprio meccanismo basato sul vuoto del corpo e sull'azzeramento della mente).
Il ritmo che non dà tregua per tutta la durata del film è dato dalle partite di baseball giocate dai Mets che affrontano i Dodgers: fingendo di scommettere sulla squadra sbagliata, il tenente è costretto a giocare al rialzo, raddoppiando continuamente una puntata che non potrà pagare se non con la propria vita (in realtà il tenente scommette sui favoriti Dodgers, squadra che conduce per 0-3, ma finge con i colleghi di scommettere sugli svantaggiatissimi Mets solo per far aumentare le puntate. I Mets invece, contro ogni pronostico, ribaltano lo 0-3 in 4-3).
I simbolismi vomitati addosso allo spettatore non si contano, solo che si è troppo presi a seguire i movimenti del vortice per accorgersi quasi che, intanto, Ferrara non rinuncia a ficcare perfino Cristo in una delle sequenze finali del film. Ciò che conta è la storia: le immagini, i personaggi, gli ambienti finiscono con l'essere utilizzati in quanto strumenti necessari per definire una propria visione del mondo, per niente pessimista, capace di trovare nel luridume più assoluto, un barlume di verità che riscatta il male di una o più vite: il cattivo tenente gioca nella melma fino all'ultimo ma quello che è certo è che, a barare, non pensa mai.
Il rovescio della medaglia: il buon tenente
Harvey Keitel, con quei suoi capelli lunghi, potrebbe vestire anche i panni di Barabba e urlare: non sono mica Cristo, io!
Ha il corpo giusto per farsi crocifiggere assieme a Dio, lui ubriaco fradicio, fatto di cocaina e di acidi, violento e sessuomane, capace di masturbarsi mentre obbliga un'automobilista sorpresa senza patente a mimare una fellazio. Tutto questo a sottolineare un gusto macabro per il vuoto, per l'assenza, per l'estrema periferia della mente.
Il nostro tenente gioca al massacro con tutto se stesso mentre gli altri – compresi i suoi familiari – vedono bene come il suo corpo vada alla deriva. Figli, moglie, suocera, amici: solo raramente e quando la morte è ormai vicina, sfugge qualche parola, una frase che gli sia di conforto, fosse anche il grido sommesso di chi dice “nessuno tocchi Caino”.
Lui, "fottuto cattolico", si scontra con uno spirito religioso che deborda e finisce clamorosamente col coincidere col sacro: la suora stuprata, pur conoscendo i colpevoli, non vuole parlare. Ciò basta a sconvolgere una mente abituata ad accettare aberrazioni di ogni tipo che, questa volta, viene affondata da un'abiezione che gli sembra di grado superiore.
Gli antagonisti del tenente compaiono per pochi secondi, una manciata di minuti, in tutto il film: sono i due giovani che hanno abusato della suora, che hanno profanato la chiesa, che hanno rubato il calice sacro. Sono gli antagonisti fisici perché, nel film, lo scontro – che c'è ed è potente – si gioca tutto all'interno del protagonista: nella penultima scena si fa avanti, per la prima volta, il buon tenente, accuratamente nascosto sotto le spoglia del cattivo poliziotto. Lui solo potrà veramente salvare dal male i due peccatori, macchiatisi di uno dei crimini più gravi per il nostro immaginario. Quasi a voler dimostrare che solo sotto il più grande male è possibile rintracciare la verità e la vita.
Movimenti lenti, una tragedia profonda, carnosa, piena di verità dolorose attraversa il film. Con capacità preveggenti, pienamente immerso in un cinema della mente e dell'anima dei prossimi anni, Abel Ferrara manipola sentimenti forti e tensioni contrastanti che nessun sceneggiato biblico televisivo sarà mai capace di – non dico trasmetterci – ma farci semplicemente immaginare. Per questo il suo cattivo tenente perde la vita ma vince, con sapienza profonda e coraggio spavaldo, certe incredibili scommesse col nostro mondo banalmente reale.
Bad Lieutenant. REGIA: Abel Ferrara. SOGGETTO e SCENEGGIATURA: Abel Ferrara e Zoe Lund FOTOGRAFIA: Ken Kelsch SCENOGRAFIA: Charles Lagola MONTAGGIO: Anthony Redman. MUSICA: Joe Delia COSTUMI: David Sawaryn INTERPRETI: Harvey Keitel (LT, IL TENENTE), Frankie Thorn (LA SUORA), Zoe Lund (MAGDALENA), Anthony Ruggiero (LITE), Eddie Daniels, Bianca Bakija (MINORENNI IN MACCHINA), Victoria Bastel (BOWTAY), Robin Burrows (ARIANE), Victor Argo (POLIZIOTTO CHE SCOMMETTE), Paul Hipp (GESÙ), Paul Calderon (POLIZIOTTO), Fernando Velez (JULIO). PRODUZIONE: Edward R. Pressman e Mary Kane DISTRIBUZIONE: Mikado. USA, 1992. Colore. DURATA: 96'

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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