VENEZIA 61 – "5X2 Cinque fois deux" – Cinqueperdue – (Concorso)

Lungi dall'essere un viaggio a ritroso alla scoperta delle cause che hanno determinato la fine di un amore, il film di Ozon si costituisce, fin dalla prime sequenze, come l'autopsia di un sentimento mai nato che ha, però, inspiegabilmente, nostalgia di sé

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Gilles e Marion si amavano, almeno così inizialmente ci piace pensare, mentre la macchina da presa li riprende l'uno al fianco dell'altra, seduti e impassibili, davanti a un giudice. Il loro matrimonio è infatti finito, suggellato da un semplice sì. Eppure, inspiegabilmente, questa non-coppia ormai legalmente smembrata si ritrova poco dopo nella camera da letto di un hotel, luogo deputato degli amanti, per consumare, forse, le ceneri di un'improbabile intimità, nel disperato tentativo di riacchiappare per la coda una conversazione ormai compromessa. Ed è da qui, da questo incompiuto epilogo, trascinato tra l'imbarazzo e la violenza di una sessualità usurpata alla stregua dello stupro di Irreversible, che inizia il film in concorso del cineasta francese François Ozon. Una pellicola che vorrebbe essere un racconto a ritroso, volto a rintracciare in questo corpo duale i segni rivelatori del decadimento, i germi dell'autodistruzione. Ma non lo è. Ozon infatti non fa alcuna ricerca, bensì sceglie semplicemente di mostrare cinque frammenti della loro vita amorosa, cinque brandelli di un discorso emotivo che resta sempre incompiuto. Flashback di una quotidianità osservata da lontano, che il regista organizza nel macero, utili solo per suffragare la sua tesi generalista sull'ineluttabilità del fallimento del rapporto a due. Fin dalle prime sequenze di questi salti all'indietro, infatti, l'amore tra Gilles e Marion ci appare fasullo, o meglio, già costruito, incomprensibilmente inquieto, soffocato negli interni di un appartamento come di un ospedale, mentre i dialoghi si accendono e si spengono a intermittenza, come coup de théatre, dietro la volontà sadica di un regista che non solo nega aria all'indicibile del sentimento amoroso (che invece librava nel piccolo capolavoro della Coppola, Lost in traslation), ma impedisce ai suoi protagonisti ogni possibilità di incontro fisico, di scambio umorale, persino nella prima notte di nozze. Quella sera, infatti, una svampita Valeria Bruni Tedeschi, neo sposa già disillusa, gioisce, ma a metà (perché pur sempre soggetta a un occhio moralizzatore e moralizzante) di un amplesso con uno sconosciuto, anziché con suo marito, e i due resteranno lontani per sempre. Ed ecco che il film di Ozon ci appare per quello che è: non un viaggio a ritroso, né tanto meno all'interno delle viscere dell'organismo-coppia, bensì l'opera di un chirurgo che incide con leziosa precisione i suoi cadaveri, mentre il ritornello di una canzone degli anni Sessanta, satura di nostalgia anche il presente. E alla fine ci si chiede, cosa mai avranno da rimpiangere due morti?

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