Venezia 61 – "Danza macabra", di Antonio Margheriti (Italian kings of the B's)

La consapevolezza del desiderio rifugge la morte per farsi sensazione impalpabile di un attimo, ricerca di una via di fuga dalle pieghe dell'incubo im/materiale.

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Festival delle incongruenze, dei ritardi ormai istituzionali, delle disconnessioni. La presentazione di Danza macabra ha visto la presenza di Edoardo Margheriti, figlio di Antonio, che ha ricordato come il padre avesse amato molto questo film del '63 "tanto da averne voluto fare un rifacimento- fotocopia otto anni dopo, intitolato Nella stretta morsa del ragno". Curiosamente il catalogo della mostra riporta una presunta dichiarazione rilasciata a Segno Cinema: "Lo sentivo datato, checchè ne diciate voi cinéphiles". Fuorviante anche la discrepanza tra i dialoghi e i sottotitoli elettronici in inglese che spesso trasformano radicalmente il contenuto delle frasi: spericolata licenza di sintesi o misterioso riferimento ad una versione internazionale? Scritto da Gianni Grimaldi e Bruno Corbucci, la lavorazione del film vide Margheriti alias Anthony Dawson subentrare dopo una settimana di riprese all'altro Corbucci, Sergio. Si considerava poco adatto all'horror. In effetti l'inventiva dei trucchi artigianali è evidente, soprattutto nell'interazione con le zone d'ombra nerissime della fotografia ipercontrastata di Richard Cramer (Riccardo Pallottini). E' uno degli aspetti controversi del film, che compendia una natura di precisione gotica dove lo spettatore può segnare con lo sguardo la duplice datazione temporale (l'erotismo audace delle scene saffiche con Barbara Steele, l'impianto elegante della messa in scena, i rimandi a certe atmosfere tipicamente Hammer) di volta in volta relegando il piacere della visione alle considerazioni sull'anomalia "macabra" rispetto al contesto italico e ad alla sua veste internazionale. Moderno e classico, originale e ripetuto insieme. Sono le valutazioni di ieri e di oggi, che limitano uno studio pienamente liberato al film. Sicuramente la solida concretezza delle apparizioni fantasmiche resta efficacemente sestosensoriale e contribuisce alla riesumazione del mondo terrificante di Edgar Allan Poe, presente come personaggio non-morto, autocitante ("Berenice") e coscienza critica del giornalista inglese con cui mette in campo la scommessa sulla notte da passare al castello uscendone indenne. Il percorso "razionale", che il giornalista difende disperatamente fino alla fine, è via via sempre più minato nell'assistere alle vicende passate di casa Blackwood/Blackblood dove fantasmi affamati di sesso e pulsanti di passioni furenti mettono in scena come ogni anno (è la notte dei morti) il tragico massacro già avvenuto anni prima. All'interno di calibrati piani-sequenza è il sangue il vero convitato, il tributo necessario per ridare vita ai fantasmi, anche solo per una notte. Ma l'accanimento con cui il protagonista si accanisce nel difendere l'amore im/possibile con Barbara Steele, nell'eccedere la visione della carne in una fede cieca, nell'immolarsi forse volontariamente per poterla ritrovare nell'eternità, tutto ciò imprime una cifra sinistra e deviata all'intero film. Quella di una delicata storia d'amore, dove la consapevolezza del desiderio rifugge la morte per farsi sensazione impalpabile di un attimo, ricerca di una via di fuga dalle pieghe dell'incubo im/materiale.         

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