VENEZIA 61 – "Man On Fire" di Tony Scott (Mezzanotte)

Ribadita l'urgenza di un'esposizione viscerale con l'accantonamento di ogni possibile complicazione narrativa, la sceneggiatura firmata da Brian Helgelund segna l'avvento di un'istintualità tutta proiettata all'"hic et nunc", dove l'esile tratteggio di un uomo riflette il rigurgito violento dell'intero apparato sociale

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Malgrado un'opera come Man On Fire fatichi fin troppo ad integrarsi nei canoni progettuali o espressivi della rassegna veneziana, l'ultimo lavoro di Tony Scott incarna con tutta probabilità un autentico manifesto delle tensioni che hanno percorso il variegato palinsesto della Mostra, prigioniera di ansie politiche dal respiro universale e insieme tragicamente intimistiche.

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Ribadita l'urgenza di un'esposizione viscerale con l'accantonamento di ogni possibile complicazione narrativa, la sceneggiatura firmata da Brian Helgelund segna l'avvento di un'istintualità tutta proiettata all'"hic et nunc", dove l'esile tratteggio di un uomo riflette il rigurgito violento dell'intero apparato sociale. Non sorprende allora il ritratto di una polizia collusa col crimine e al contempo accomodante verso la follia vendicativa del novello giustiziere della notte: solo di questi tempi un'icona così poteva tornare epica, e di moda. L'orizzonte privato diventa allora il teatro di guerra per una sanguinosa vendetta "cosmica", quando la tormentata guardia del corpo Creasy (l'assonanza con l'aggettivo "crazy" è d'obbligo) deve arrendersi ad un Messico informe quanto la visione statunitense del mondo non occidentalizzato.


La ferocia della reazione violenta spezza una premessa nervosamente dilatata in un'estetica da videoclip, mentre le immagini del film incasellano la disanima politica entro quella fenomenologia del "rimosso" già largamente sviscerata in patria da Christopher Nolan (Memento, Insomnia) e Clint Eastwood (Mystic River). Se il senso di colpa continua tragicamente ad ossessionare l'antierore americano, l'unica risposta possibile resta confinata all'interno di un cinema d'azione ossessionato dalla percezione del vuoto: anziché lavorare per sottrazione superando la superficiale contemplazione del rapporto causa-effetto, il regista di Nemico Pubblico satura però i fotogrammi del film e soffoca qualsiasi aspirazione di fuoriuscita dalla spirale sanguinosa. La lucida consapevolezza dettata dalla disanima sociale non gli impedisce cioè d'instaurare un profondo legame empatico con le dinamiche interne alla narrazione, rimanendone maldestramente imbrigliato. Alla fermezza dello sguardo si sostituisce un coinvolgimento emotivo colpevolmente privo di programmaticita, deresponsabilizzando il grande schermo della facolta di leggere i criticamente la storia.

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