David Fincher: il cancro, il gioco e la visione

I luoghi del suo cinema (un’astronave, una città, una casa, lo stesso ES) sono tutti immaginati come dei corpi, dove si annida il cancro, malattia simbolo della degenerazione sociale capitalistica. Ritratto di un cineasta che non si spaccia per autore ma che, pur non scrivendo le storie che filma, ha un suo preciso punto di vista sul mondo

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David Fincher, nasce a Denver, Colorado. Si dice che già a 8 anni in lui fosse radicata l’idea di fare il regista. George Lucas diventa il suo idolo, prima ama “American graffiti”, successivamente, dopo aver visto “Guerre stellari”, si infiltra tra le fila della Industrial Light and Magic e debutta come assistente operatore per le miniature e gli effetti ottici del film “Il ritorno dello Jedi” e, nel 1984, cura gli effetti fotografici di “Indiana Jones e il tempio maledetto”. Questi sono i primi passi di avvicinamento al mondo della regia. Nonché, preparato e con un eleganza notevole nella composizione fotografica, gli anni ’80 del videoclip lo vedono per la prima volta dietro la macchina da presa. Sono suoi alcuni bei video di Madonna o “Janie got a gun” degli Aerosmith o “L. A. woman” di Billy Idol. Ma bisogna attendere che il nostro compia trent’anni, che abbia plasmato la sua forma mentis nella factory di Lucas, nella musica dei video clip e nel mondo della pubblicità televisiva (sua una sulla sensibilizzazione al cancro), prima di approdare nel mondo del futuro medievale del suo Alien.
Fincher infatti, esordisce nel lungometraggio con il terzo e episodio della saga Alien, con “Alien 3”. Già da questo primo film si può notare quello che sarà uno dei due elementi cardine, evidenziati in questo profilo, della poetica di Fincher: il cancro. Facciamo subito una piccola digressione nella memoria della saga di Alien. Il prototipo è quello di Ridley Scott, che per la prima volta nel cinema di fantascienza, pone le sorti dell’umanità nelle mani di una donna, nella vischiosità cancerosa di Alien la sua minaccia, e nelle fattezze del granchio, che abbraccia il volto di John Hurt (Kane), la metafora e ancor di più la forma del parassita del cancro. L’etimo di cancro infatti è proprio granchio. E il pianeta sconosciuto nel quale fa tappa l’astronave Nostromo, non è altro che un altrove fisico, non solo geografico. E’ il nostro corpo (l’interno) il pianeta che ospita le uova. Mai, forse, in nessun altro film di fantascienza come in “Alien” e in “Aliens” di James Cameron, si sono viste tante sigarette e tanti fumatori inquadrati nell’atto di accendersi o addirittura di rollarsi la sigaretta, di confezionarsi la propria morte. E non sembra nemmeno casuale che nel secondo episodio di “Alien” il mostro venga chiamato col nome di “granchiaccio”. Qui, nel film di Cameron, l’allegoria che getta le basi nel primo “Alien”, diventa quasi una certezza. Nel primo “Alien” infatti Sigourney Weaver non fuma, nel secondo diventa una provetta fumatrice e nel terzo, proprio quello di Fincher, è lei la portatrice “sana” dell’alieno. Qui, la scoperta dell’ospite indesiderato viene, come ogni grave malattia che si rispetti, diagnosticata tramite una moderna T.A.C.

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Nel 1995, con “Seven”, David Fincher torna con il suo film forse più riuscito. Thriller tra i più sbalorditivi, cupi, pessimisti e apocalittici mai visti, tanto da poter tranquillamente dividere questo genere in un dopo e in un prima di “Seven”. Girato in una metropoli fantasma dove i suoi abitanti non hanno il diritto di essere inquadrati, se non dalla cintola in giù, dove il germe infettato dalla civiltà moderna sembra essersi insediato in pianta stabile, dove l’umanità chiude drammaticamente il suo ciclo riproduttivo. Ecco, dunque, che la metafora del cancro ritorna fuori prepotentemente insediandosi questa volta tra i recessi sinuosi di una città votata al cupio dissolvi. In tempi passati la città era considerata come diceva Frank Lloyd Wright un “organismo sano”, mentre in riferimento a quella moderna si esprimeva in tutt’altra maniera, considerandola letteralmente cancerogena: “Guardare lo spaccato della pianta di una qualunque grande città – diceva Wright – è come guardare la sezione di un tumore fibroso”. E a dare manforte a questo aspetto ci pensa l’ombrosità delle immagini splendidamente fotografate da Darius Kondhi, che riflettono con perfetta pregnanza sia il contenuto di “Seven,” che la forma: la parabola morale dell’escatologia cristiana (presenza quasi costante nel cinema di Fincher) e la fissità iconica del suo perpetuarsi. I terrificanti omicidi vengono infatti trascurati e soppiantati, come in Bacon nel suo trittico sulla crocifissione, dalla staticità da natura morta delle conseguenze. Come dicevamo, in questa seconda pellicola, oltre ai protagonisti, alla presenza del serial killer-morte (Kevin Spacey) che lavora “cinematograficamente” sul corpo degli attori, l’altro personaggio principale è la città, o meglio, il suo carattere anonimo (John Doe) e perturbante. Ed il rifiuto della città come primo passo verso la cura del suo cancro e come rinascita simbolica è da Fincher ripetuto in continuazione. In “Seven” avverrà in un deserto, in “The Game” Michael Douglas si risveglia (con una nuova coscienza) sempre lontano dai chiaroscuri notturni della metropoli, in “Fight Club” non c’è spostamento ma un cambio di prospettiva verticale della città determinato dal suo crollo, in ultimo, “Panic room”, si chiude con le due eroine sedute a Central Park, enclave incontaminata dove sin dai titoli di testa il regista aveva collocato anche il suo nome, lontano dal resto dei credit irrimediabilmente incastonati nell’architettura metropolitana.
Il cancro è stato ripreso da più parti, dalla letteratura al cinema, come metafora dei mali dell’era moderna, come piaga dell’affermarsi del protocapitalismo, come comportamento negativo dell’“homo economicus” novecentesco. Con il suo carattere invasivo, con le sue cellule cancerose e le sue colonizzanti metastasi, è stato ed è il simbolo di un male dilagante e irrefrenabile del nostro corpo, nonché del corpo della nostra società, delle nostre città.

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In Fincher ancor più che in “Alien 3”, questa malattia è sentitissima nella sua penultima pellicola, “Fight Club”. Film con Edward Norton e il suo “doppio” Brad Pitt. Se nella saga di Alien il tumore viene espresso figurativamente attraverso il simbolo che è proprio della fantascienza, ossia l’alieno, in “Fight Club” le strade percorse sono due. Una dove il cancro viene nominato e collocato in un luogo ben definito e referenziato che è quello dei ritrovi per malati terminali, un’altra, quella meno esplicita, che passa per la strada più tortuosa della rimozione. Brad Pitt infatti, rappresenta, per usare un termine junghiano, la nigredo di Edward Norton, la sua latenza, la parte negativa, l’Es. Per Fincher l’unica possibilità salvifica passa attraverso la lotta, il Fight Club. Scindersi per prendere a pugni il proprio Es significa combattere contro la forza del cancro, inteso come malattia e, come abbiamo già detto sopra, come allegoria della nostra società capitalistica. A questo proposito è interessante rilevare le parole di Susan Sontag: “ […] il cancro è visto oggi come la distruzione o l’annientamento della consapevolezza a opera di un Es irrazionale – e continua – nel cancro le cellule inintelligenti (primitive ed embrionali, ataviche) si moltiplicano e tu vieni soppiantato dal tuo non-io. Gli immunologi classificano le cellule cancerose del corpo come non-io […]”. “Se avessi un tumore lo chiamerei Marla” dice Edward Norton, o meglio, la voce off. Dice questo perché il tumore, almeno ai suoi occhi, non si è ancora sublimato. Non a lui, ma in compenso noi spettatori, seppur attraverso un meccanismo latente, siamo stati informati più volte. Quando nella prima parte del film lo stesso Norton rompe il tessuto della finzione interpellandoci, crea uno squarcio e mette in comunicazione due mondi, quello della finzione, e quello reale, in questo modo, il regista, trova in Norton il suo mediatore e getta un ponte comunicativo-didattico tra l’istanza enunciativa e lo spettatore. Per la prima volta veniamo chiamati in causa, e proprio per spiegarci gli aspetti tecnici della proiezione. Brad Pitt, che come abbiamo già detto è “l’inconscio di Norton al lavoro”, si diverte ad inserire degli inserti subliminali (falli) nelle pellicole per famiglie, creando uno scompenso negli spettatori. Fa subire ai suoi spettatori quello che Fincher infligge ai suoi, ossia noi. Il proiezionista Pitt, con una sorta di metastasi fotografica, si adopera nel postmoderno compito di svezzare e informare lo spettatore, e viene seguito a ruota dal suo regista. “Fight Club” è disseminato dall’inizio alla fine di fotogrammi subliminali (cosa che succede anche nel più classico “Seven”: quando il detective Mills sta per sparare a John Doe, quasi impercettibilmente, appaiono gli occhi della moglie), infatti il Pitt che è in Norton, o meglio il tumore-Marla che è in lui, Fincher ce lo ha più o meno palesato con gli inserti subliminali sin dall’inizio. Doppio svezzamento dunque, il nostro e quello degli spettatori diegetici. Ulteriormente, nell’ultima scena del film, quando Norton e Elena Bonham Carter come spettatori assistono dalla finestra (importante a tal proposito ricordare una frase del grande medico George Groddeck che definiva la malattia “un simbolo, la rappresentazione di un avvenimento interiore, il palcoscenico di cui l’Es si serve) alla capitolazione del capitalismo, si frappone tra noi e loro, per una frazione di secondo, il fallo incriminato. Ma ora veniamo al secondo ingrediente del metabolismo cinematografico di Fincher: il gioco. Giocare con lo spettatore è l’altra funzione basilare nel meccanismo del cinema del nostro. I film di Fincher sono puro intrattenimento (nell’accezione più nobile) e allo stesso tempo lezioni di cinema. Sono trattati che riflettono (anche) sul rapporto che intercorre tra lo spettatore e il film, e per fare questo c’è bisogno, come in ogni rapporto, che entrambi gli interlocutori vengano chiamati in causa. Una sorta di squarcio dello schermo, un’apertura attraverso la quale lo spettatore ha la facoltà di guardare dentro il giocattolo-cinema. Così facendo il linguaggio cinematografico non diluisce assolutamente la sua magia nello svelarsi, anzi, è proprio nel suo dichiararsi che ne acquisisce di ulteriore. Giocare con lo spettatore tanto da nominare “The game” un suo film, è forse il segno connotativo più evidente. Si sono volute dare mille spiegazioni a questo film, riconoscerlo incoerente, presuntuoso e decodificarlo mandando a benedire la tanto amata sospensione dell’incredulità. Forse, la cosa più semplice da fare, era quella di prenderlo per quello che è in realtà: un gioco-puzzle ben architettato nelle mani dello spettatore. Non ha nessuna pretesa se non quella di mettere in scacco lo spettatore e di rammentargli ad ogni snodo, che ciò a qui sta assistendo, non è altro che un film, come non è altro che un gioco per Nicholas Van Orton. E’ quest’ultimo a pronunciare la fatidica frase “voglio alzare il sipario, voglio vedere chi è il mago”. Nulla di più facile per noi spettatori capirlo, ma ancora una volta, niente di più complicato per lo spettatore (Nicholas Van Orton) diegetico. I personaggi dei film di Fincher infatti, possono arrivare alla luce (“Lunga ed impervia è la strada che dall’inferno si snoda verso la luce” è la miltoniana frase citata in “Seven”) ma dovranno superare e sopportare lunghe prove se non addirittura la morte vera o simbolica. Forse in questo senso Fincher, con questa sua idea del sacrificio-redenzione, con questo fondamentalismo cristiano apocalittico millenario, è uno dei registi più moralisti in circolazione, forse più di Scorsese e di Abel Ferrara messi insieme. Ma per ritornare a “The game” è curioso notare come, presentando il suo statuto già nel titolo, sia uno dei due film del 1997 con la parola “gioco” nel titolo; l’altro è “Funny games” dell’austriaco Michael Haneke. Richiamiamo alla memoria questo sorprendente film per pensare come sia questo, sia il cinema di Fincher, come pocanzi abbiamo scritto, riflettano sul come permettere allo spettatore di capire ciò che gli viene mostrato. E come questo film possieda diversi elementi in comune con l’ultimo film di David Fincher, “Panic room”.
Entrambe le pellicole rispettano le tre unità della tragedia classica (luogo, tempo e azione), entrambe sono ambientate nell’interno di una casa, entrambe isolate e intrappolate dalla ritorsione degli oggetti del benessere, e tutte due con la stessa intenzione di mostrare, seppur in maniera differente, il meccanismo cinema.
“Panic room”, con i suoi significanti titoli di testa, ci indica immediatamente che ciò a cui staremo per assistere è cinema. Ci apre subito le porte all’illusione delle tre dimensioni. I suoi titoli di testa non sono sovrimpressi ma fanno parte dell’architettura, sono incastonati in essa, sono parte integrante della diegesi. Siamo catapultati sin dai titoli, dentro la macchina filmica, dentro il gioco. Ecco ancora che Fincher non ci nasconde il fatto che il cinema è finzione, al contrario, non ne prende mai le distanze ed è palpabile in ogni inquadratura l’intenzione di ricordare al pubblico che lo spettacolo a cui sta assistendo si gioca a carte scoperte. La mdp precede ogni volta il movimento degli attori, sa già dove andranno e cosa faranno, conosce la piantina della casa perché la casa non è altro che un set, studiato, plasmato, piegato ai voleri di un profilmico alle dipendenze di una troupe. Lo sguardo del regista passa attraverso i manici, attraverso le serrature, si liquefa, e si smaterializza per tagliare muri come fossero burro. Insomma, un film ben confezionato senza pretesa maggiore se non quella di divertire. Come lo ha definito Fincher, un film popcorn. Ma come sempre, anche in questo film, siamo alle solite. Già additato con la solita locuzione a mero “esercizio di stile”, senza però pensare che, se si tentasse di redimere una parte del cinema di Fincher (“The game”, “Fight club” e ora anche “Panic room”) a puro esercizio stilistico appunto, allora si dovrebbero arruolare sotto questo novero, registi del calibro di Hitchcock, il secondo Ridley Scott, il secondo Carpenter, David Lynch ecc…. Ma se quest’errore verrà ripetuto sarà merito della solita annosa critica che vede ancora nel nuovo R. Scott una barbara fotocopia di se stesso, nell’ultimo Carpenter un’improvvisa demenza senile e in Lynch più Lynch un ricettacolo di simbolismi e calligrafismi da finto auteur, senza invece adoperarsi in una lettura più competente e profonda di quelle che sono vere e proprie necessità espressive in aderenza al bailamme di questa nuova società gravida di ulteriori incubi. Fincher invece, fortunatamente, sembra aver capito che la ricerca formale intesa come teorizzazione metadiscorsiva della messinscena, è l’unica cinematografia possibile di intrattenimento intelligente. “Panic room” lo dimostra ancora una volta, volgendo un duplice sguardo: uno a se stesso, l’altro al cinema che lo ha condizionato.

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