VENEZIA 64 – "La vita oltre l'artificio". Incontro con Abdellatif Kechiche

kechichePresentato in concorso Le graine et le mulet di Abdellatif Kechiche, attesa pellicola del cineasta franco-tunisino che segue il sorprendente La schivata premiato lo scorso anno con 4 Cesar. Il ritratto lungo, sfaccettato e vibrante di una famiglia araba che dedice di aiutare l’anziano capofamiglia ad aprire un ristorante

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kechichePresentato in concorso Le graine et le mulet di Abdellatif Kechiche, attesa pellicola del cineasta franco-tunisino che segue il sorprendente La schivata premiato lo scorso anno con 4 Cesar. Il ritratto lungo, sfaccettato e vibrante di una famiglia araba che dedice di aiutare l’anziano capofamiglia ad aprire un ristorante. Abbiamo incontrato il regista, accompagnato dai suoi eccellenti attori.

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Le graine et le mulet è un film in cui i dialoghi ricoprono un’importanza basilare. In che misura sono stati improvvisati rispetto alla sceneggiatura di partenza?
Nel mio metodo di lavoro amo moltissimo ripetere le scene, creare complicità tra gli attori, fare molti tentativi prima di girare. Durante le prove loro erano liberi di aggiungere alcuni elementi di novità, ma comunque non si doveva mai arrivare a una improvvisazione libera. Il risultato mi soddisfa davvero molto, sono fiero dell’alchimia e dell’intensità che hanno raggiunto.

Questo suo film affronta molti temi importanti tra cui quello del lavoro precario, del razzismo, dei conflitti famigliari. Quale tra questi le suscitava maggior interese all’inizio, a cui teneva maggiormente?
La quotidianità della famiglia e tutta la spontaneità vitale che c’è dietro. Il mio obiettivo primario era quello di conferire a questa famiglia dalle origini arabe, di esprimersi con spontaneità senza riccorrere a clichè o altre sovrastrutture. Mi interessava andare oltre la finzione-cinema, filmare la vita oltre l’artificio. Volevo così raccontare una storia semplice e comune, allo stesso tempo aspirando a raggiungere una dimensione contemplativa. Il razzismo, invece, ricopre un ruolo molto più marginale. E’ presente implicitamente in alcuni momenti, ma in generale ero più interessato ad altri sviluppi e analisi. Sentivo che avrei dovuto dedicare il film a mio padre e l’ho fatto.

Qual è il suo metodo di lavoro, e che differenza c’è nel suo cinema tra il lavoro sul set e quello in sala di montaggio?
Al primo dedico gran parte del lavoro. Una volta che comincio a girare so già cosa devo fare alla perfezione, proprio grazie al gran numero di prove svolte precedentemente. Qui la mia formazione teatrale emerge perentoriamente. Poi con la cinepresa mi prefiggo il compito di cogliere l’essenza di ciò che filmo, e la magia della storia e dei personaggi che racconto. A tal proposito molto importante nel corso delle riprese è stata la musica. In più di un’occasione abbiamo cercato l’atmosfera del film attraverso l’elemento musicale, che è a mio parere riscontrabile anche nella recitazione degli attori, spesso ricca di assoli e contrappunti proprio come una partituta. La fase di montaggio è una conseguenza di questo procedimento sul set. Nel caso di Le graine et le mulet il materiale a disposizione era così enorme da raggiungere le tre ore e trenta. E’ stato necessario allora sistemare alcune cose per rendere il film più digeribile per il pubblico.

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