"Be Cool", di F. Gary Gray

"Be Cool" non sarà certamente la prova del possibile incontro, tra la commedia classica e l'universo sregolato del demenziale. È pur sempre cinema perdutamente innamorato del mondo e delle fantasie che abita. È pur sempre cinema eversivo, più reale della realtà: poco esuberante, debolmente temerario, mai pericoloso, ipocinetico.

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L'intrattenimento è il collante che tiene uniti Get Shorty e il sequel. L'intrattenimento ha i suoi tempi, le sue pause, i suoi rimandi, le sue astuzie. John Travolta è ancora Chili Palmer con il passato da strozzino e vuole farla finita con il cinema per darsi alla musica. Ma ad Hollywood le storie si confondono con ciò che eri e ciò che vorresti essere. Be cool scivola calmo, mai fiammeggiante nell'umorismo però con la comicità dalla linea netta. Il cinema di Gray può essere accusato di ruffianeria (vedi il ballo tra Uma Thurman e Travolta o il mondo rap/gangster di Los Angeles), ma non consente distrazioni perché l'attenzione sembra sempre focalizzata al posto giusto. Le inquadrature sono stabilite in modo che, se una gag è visiva, la si percepisce immediatamente, senza che sia oscurata o confusa. La combinazione tra la messa in scena, i punti di ripresa e il ritmo è compiuta. È commedia che si fonda sul principio della reazione: quando qualcuno dice una cosa buffa o oltraggiosa, la battuta può essere divertente in sé, ma talvolta la reazione fa ancora più ridere. C'è una danza lenta e circolare che si sviluppa intorno alla scena, per compattare il tempo e "cadere" al posto giusto. Girando ininterrottamente ad un certo punto puoi staccare su cosa il nostro sguardo vuole vedere in quell'istante: ci ritroviamo dove vorremmo essere e intanto il film continua, ci scorre addosso, senza sbatterci in faccia. Decostruzioni dei linguaggi della pop cultura che inconfutabilmente si "dichiarano" a Joe Dante, Sam Raimi, John Landis, Tarantino. Be Cool non sarà certamente il punto di snodo, la prova della possibilità di un incontro, tra la commedia classica e l'universo sregolato del demenziale, mix ereditato dai fratelli Farrelly o dai Weisz. E' pur sempre cinema perdutamente innamorato del mondo e delle fantasie che abita (vedi Vince Vaughn, manager incapace che rimpiange di non essere un "fratello" afroamericano o la guardia del corpo con pretese artistiche). Essere se stessi, interpretare se stessi (come Steven Tyler degli Aerosmith), giocando con i personaggi e ancor più sugli interpreti. È proprio così che si sviluppa la storia, antitesi della citazione (colta o ironica che sia), dell'ammiccamento, della "rivisitazione critica". Idea di cinema in quanto arma eversiva, più reale della realtà, poco esuberante, non antiautoritaria, ipocinetica, mai pericolosa, debolmente temeraria. A tratti anche malinconica, come nella claustrofobia delle interiorità "stellari" che fanno la storia e non il contrario. Rilassarsi è salutare specie quando il "firmamento" si schiera dalla parte dello spettatore e delle sue pretese.

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Titolo originale: id.


Regia: F. Gary Gray


Interpreti: John Travolta, Uma Thurman, Vince Vaughn, Harvey Keitel, Danny De Vito, Cedric The Entertainer, Andrè Benjamin, Steven Tyler, Cristina Milian


Distribuzione: Twentieth Century Fox


Durata: 120'


Origine: Usa, 2004

 

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