"Station Agent", di Tom McCarthy

L'opera prima di Tom McCarthy è ben fatta e anche ben interpretata. Non è un capolavoro, ma è parte di quel cinema indipendente americano che sente più forte il bisogno di evadere nell'angosciosa ed essenziale impossibilità di una possibile determinazione fra ciò che è genere, cinema d'autore e tutto il resto.

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Dietro la macchina da presa a realizzare un film indipendente, in pochi giorni, con la fretta addosso, toccando le sfere passionali del sogno e dell'utopia moderna. Il treno attraversa le terre intersecando isolamento e unione, trasportando insolite storie di conquista. Certe conquiste dell'anima e della conoscenza non sono possibile senza "malattia". Ed è per questo che il protagonista è Peter Dinklage, affetto da nanismo ipofisario, con la passione per la storia delle ferrovie del suo Paese e con una forte propensione alla solitudine. Eredita dal suo datore di lavoro una vecchia casa che faceva da piccola stazione ferroviaria nelle campagne del New Jersey e si trasferisce senza indugio, ripercorrendo la strada seguendo i binari di ferro e travertino. Lontani dai clamori cambia la prospettiva, quasi s'inverte. Si trova il proprio spazio, si arreda, si rende misurato alle proprie esigenze. Va a finire che si può anche cambiare idea sul desiderio di voler restare soli se s'incontrano persone che si oppongono inavvertitamente. Esistenza e relativismo. Questo cinema è generoso verso la storia e i suoi personaggi a tal punto da muoversi con esasperata delicatezza. Maneggia oggetti fragili con quella dignità silenziosa che mai si spinge alla ricerca di fragorose invettive. È una commedia che cammina (molto) e respira, con humour continuo e strutturato, la consapevolezza dell'alterità portatrice della sua ombra, del suo mistero. Non è una storia d'amore compromettente, una relazione amicale invischiante, ma una delocalizzante e lenta deriva all'autoisolamento mai compiaciuto. In una calma stregata, il Paese dominante è reso nell'evanescenza degli istanti che si vaporizzano come quei treni in partenza o di passaggio veloce e indifferenti agli sguardi ammirati e fugaci. Vincere il premio come migliore sceneggiatura, il premio del pubblico e come migliore attrice (Patricia Clarkson) al Sundance Film Festival e nonostante ciò, trovare distribuzione all'estero dopo due anni, è un elogio al tempo paziente che non è più di questo tempo. Anche se poi quel minimalismo narrativo e visivo sottostante, probabilmente non si offre a noi in un gesto che richiede la nostra attenzione e la nostra cura per vitale incompiutezza. Tra scrittura e immagini c'è luce eccessiva: manca un binario interrotto, un binario morto privo d'espressione, che non si limiti solo a scorporare la spettacolarità superflua, ma che impedisca assolutamente il mescolarsi di apparenza ed essenza. Sarebbe comunque bello poter constatare che la maggior parte del cinema indipendente americano degli ultimi anni senta più forte il bisogno di evadere nell'angosciosa ed essenziale impossibilità di una possibile determinazione fra ciò che è genere, cinema d'autore e tutto il resto.

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Titolo originale: The Station Agent


Regia: Tom McCarthy


Interpreti: Peter Dinklage, Paul Benjamin, Jase Blankfort, Paula Garces, Josh Pais, Bobby Cannavale, Patricia Clarkson


Distribuzione: Buena Vista International Italia


Durata: 90'


Origine: USA, 2003

 

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