"Blueberry", di Jan Kounen

Quello di Kounen è un cinema che non lascia respirare gli spazi aperti del paesaggio messicano e non apre squarci emorragici nell'animo e sulle immagini, e in cui l'esistenza dello sceriffo, ombroso e solitario del titolo, falsamente genuflesso nel penitenziale ricordo del proprio passato, è affidata al fuoco di un memoriale che non brucia.

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L'animo, le parole e le immagini. Il cinema oscilla tra passionale fascinazione e lacerante ossessività; tra gesti/segni, che si coagulano nel grumo ematico di un intimo sentire, vedere, amare, odiare, percepire la vita, che si raccoglie intorno al nostro sguardo, lucerna del corpo, e il tendere dello spirito verso il centro della segretezza e dell'intimità. E' il pensiero che inciampa, peccante, errante, lontano dal cinema, dal territorio delle immagini, dal quale, pure, si ha paura di essere esiliati: non vedere più ciò che il tempo fa muovere dentro e intorno a noi; non avvertire più il fremito del desiderio che ci accosta alla vita; non essere più soggetti pazienti alla fragilità del proprio divenire; non sentire più nella carne dell'animo la fitta lancinante di quella colpa originante, che avvolge nell'ombra il nostro corpo. Blueberry, il nuovo film dell'olandese Jan Kounen (Dobermann), tratto dall'omonimo fumetto apparso in Francia nel 1963 e realizzato da Jean Michel Charlier e Jean Giraud, in arte Moebius, gioca col mito della frontiera e del lontano west con un narcisismo estetizzante, che sottrae i corpi alla vita, a quello spirito vitale che anima gli istanti del cinema. Quello di Kounen è il tentativo mancato, o meglio inesistente, di tenere lo sguardo sospeso tra il cielo e la terra, come nella sequenza a volo di uccello all'inizio del film o nelle riprese aeree del paesaggio messicano. Ma il suo sguardo non ha la levità e la concretezza di un Cimino, dell'ultimo Costner, quello di Open range – Terra di confine, o di Tommy Lee Jones e del suo film visto a Cannes quest'anno (referenti di cui, forse, sarebbe meglio tacere). La sua macchina da presa si muove troppo velocemente e non lascia respirare gli spazi aperti della location messicana, ciò che si avverte è il vorticare vuoto di uno sguardo distante, una distanza che non accarezza i corpi immersi nella vastità del mondo in cui sono gettati. Un cinema che non apre squarci emorragici nell'animo e sulle immagini, e in cui l'esistenza dello sceriffo, ombroso e solitario del titolo, falsamente genuflesso nel penitenziale ricordo del proprio passato, è affidata al fuoco di un memoriale che non brucia (il lungo flashback iniziale che ambisce a raccontarci la perdita di un amore e l'inevitabilità della colpa). Così Blueberry è l'illusione di una messa in abisso del cinema; l'espressione di un pensiero che non riesce a raccontarsi attraverso le immagini. Le sue sono immagini che non rivelano il cuore. Un cinema, in cui ogni redenzione è il prestito di una spiritualità non vissuta né sofferta (il finale con l'esorcismo dei propri fantasmi e la riscoperta dell'amore con l'immersione in un lago le cui acque non avvolgono, come quelle del ventre molle e placentare di una vera ri/nascita). Questo è un linguaggio, in cui ci si può anche identificare, ma non abitarne l'essenza. Un linguaggio il cui significante può anche svelare l'intelletto, ma non rivelarne l'animo. Questo è un cinema in cui le emozioni non si espongano alla nudità di un pensiero incarnato, tracciato e disseminato nel tessuto di immagini che irradiano l'animo, custodendone il senso di un intimo palpitare.

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Titolo originale: id.
Regia: Jan Kounen
Interpreti: Vincent Cassel, Michael Madsen, Juliette Lewis, Temuera Morrison, Ernest Borgnine, Djimon Hounsou
Distribuzione: Moviemax
Durata: 110'
Origine: Francia/Messico/USA, 2004

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