Una trappola di luce vellutata: Collateral, di Michael Mann

Mann esplora le nuove possibilità della visione delle nuove tecnologie non per fare giochi sperimentali e freddi del post-cinema, ma al contrario per catturare cinematograficamente le potenzialità del digitale, reinnescandole all'interno di una macchina-cinema espansa, capace di adeguarsi e mutarsi in un cinemadigitale che sembra reinventare la visione

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E improvvisamente, nella notte di Los Angeles, tre coyote attraversano la strada… è un momento “sospeso”, quasi ipnotico, un sogno nell’incubo urbano che sta vivendo da qualche ora il tassista Max (Jamie Fox), costretto a una notte folle e disperata dal killer Vincent (Tom Cruise).

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Pochi secondi, piccoli attimi di fotogrammi che sembrano espandere lo schermo, lanciandosi verso altri orizzonti, altri mondi, altre visioni. Forse il western, magari un cupo western urbano, dentro le coordinate visuali di un cinema che sembra ogni volta voler ridisegnare le geografie, i luoghi, i paesaggi della città/metropoli per eccellenza, L.A.

 

Il cinema di Michael Mann è una trappola di luce vellutata, che esplora la visione della notte con la stessa anima e passione dei suo predecessori degli anni Quaranta, quando gli occhi espressionisti di fotografi e registi inventarono il mondo cupo e in bianco e nero quasi senza grigi del noir. Le ombre e le luci di allora catturarono un mondo sommerso, nascosto dietro le pieghe del sogno americano, vincente e trionfatore nel dopoguerra mondiale.

 

Oggi il sogno americano ha ancora i suoi maledetti incubi, ma il cinema hollywoodiano sembra aver dimenticato la lezione di un tempo. Non Michael Mann, che vuole catturare l’essenza della luce, l’anima del cinema, il cuore della città. E pur di dipingere con gli occhi la sua città “reale” corre il rischio sperimentando il digitale, abbandonando in parte il calore della pellicola, per tuffarsi dentro una visione notturna ad “alta definizione”, per “vedere di notte, per vedere tutto quello che si può vedere a occhio nudo e anche di più“, come spiega lo stesso regista.

 

Tutto quello che si può vedere a occhio nudo e anche di più: ecco l’etica/estetica della visone manniana, che lo spinge nei territori del digitale, primo ad utilizzare la macchina da presa Thomson Grass Valley ViperFilmStream, modificata per ritrarre Los Angeles nelle ore che vanno dal tramonto all’alba. “Alle due o alle tre del mattino – racconta un ispirato Mann – il cielo di Los Angeles è unico. Le luci della strada si riflettono sulle nuvole e, anche al buio, si riescono a vedere in lontananza le sagome delle palme che si stagliano sullo sfondo del cielo… Questo paesaggio cangiante con le sue colline e anche di più è il mondo in cui volevo che Vincent e Max si muovessero“.

 

Già, Vincent e Max. Due uomini solitari nella notte. Ma prima c’è Anne Farrell (Jada Plinkett Smith), che sale sul taxi di Max per un lavoro notturno da sbrigare, giovane e intrigante procuratore che improvvisamente squarcia il cuore di Max, lasciandogli un segno che ne determinerà delle scelte finali imprevedibili, impregnando il corpo del tassista di qualcosa di insondabile ma che stralcia le linee di fuga del passato, per imporsi come immediata rivoluzione esistenziale, scarto di vita prima impossibile. Max guida il taxi da 12 anni, un lavoro part-time, e nel frattempo cerca di costruire giorno per giorno il suo sogno, il suo business, il suo personalissimo “american Dream”. Ma nella notte dei colori caldi di L.A., con dei gialli, rossi e arancioni mai visti prima, trova sulla sua strada l’elegante forestiero Vincent, che lo porterà con sé sulla strada dell’inferno.

 

Vincent è un professionista, un killer con un compito da sbrigare, cinque corpi da eliminare, e Max è il traghettatore che gli serve per muoversi con velocità nella notte della “città degli angeli”. E Max è il migliore, preciso e ottimale come Vincent esplica il suo lavoro. Ma il primo corpo da eliminare, per un caso fortuito, finisce schiantato sopra il taxi di Max, e allora Vincent è costretto a “rapire” il tassista, e condurlo con se nell’aberrante sequela di omicidi. E guai a coinvolgere altri innocenti, perché la lista di morti non può che allungarsi. Per Max è un incubo, costretto a condurre questo killer/terminator implacabile e senza emozioni, ma con dentro di sè una lucidità paradossale che in qualche modo cattura l’anima segreta di Max, fino a che il caso e le strategie del killer non lo costringeranno, per un attimo, in una lunga sequenza con il mandatario Felix, letteralmente a “trasformarsi” in Vincent, prendendone le veci, il corpo e il volto. E il rapporto confidenziale tra i due uomini diviene il cuore rivelatore del film, dove l’anima nera di Vincent pervade il cuore ingenuo e sognatore di Max, che saprà reagire e risvegliarsi dall’incubo solo nel momento in cui sentirà di non aver più niente da perdere, se non forse quella giovane affascinante donna incontrata nella sua folle disperata notte e il cui numero di telefono e appeso all’interno del suo taxi.

 

Mann esplora le nuove possibilità della visione offerte dalle tecnologie di oggi, non per fare i giochi di luce sperimentali e freddi del post-cinema, ma al contrario – ed è un modello per tutti – per catturare cinematograficamente le potenzialità del digitale, reinnescandole all’interno di una macchina-cinema espansa, capace di adeguarsi e mutarsi in un cinemadigitale che di colpo sembra reinventare la visione (del mondo). E noi qui con gli occhi aperti, spalancati nella sublimazione di uno sguardo che fa rinascere il cinema, alla faccia di chi lo voleva già morto da tempo. Lunga vita a Michael Mann, ne abbiamo tutti bisogno!

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