Chiusure/Aperture verso l'esterno: "La tela dell'assassino" di Philip Kaufman

La scena del cinema manicomiale di Kaufman sembra immaginata/sognata da Sade: un corpo rinchiuso in una stanza ad immaginare l'esterno, a sognare di un cinema intessuto su realtà improvvisamente slabbrate e su movimenti sempre abortiti.

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Kaufman, possa piacere o meno, è uno dei registi più disturbanti in circolazione. Già, disturbante e rimosso, eliminato, bypassato, persino intorpidito dagli anni di inattività, incattivito forse da un' obbligata e inacidita stasi. Non è tutto. Durante questi giorni di vigilia natalizia esce un anonimo La tela dell'assassino, si pensa all'ennesima variazione sul tema del serial killer e si sbaglia, anche di grosso. Kaufman è tornato, ma non ai vertici (quelli li aveva già toccati con Uomini veri), semmai in periferia, nelle lande desolate di un cinema che ricomincia da zero e che pratica l'umiltà e il lavoro duro, fotogramma su fotogramma. Non ci credete? Fate un salto mentale sui primi cinque minuti dell'opera. Panoramica inebriante su una luce da brivido che scalfisce il porto di San Francisco, il traffico cittadino in lontananza, un volto in primo piano. Un volto rigato da lacrime furtive e sangue imminente, poi l'ombra di un coltello che si avvicina alla gola e ancora la luce che balla tra la vita e la morte, schizzando veloce da una sponda all'altra. Chi è il carnefice e chi la vittima? Nel cinema manicomiale di Kaufman la risposta non è data, meglio non cercarla. In questo incipit è racchiuso tutto il cinema dell'autore che attacca su note simili a quelle della Campion di In The Cut per disperdere subito dopo la strafatta e "sporca" Asley Judd nel buio di una notte golosa che fagocita corpi e restituisce illusioni. Quasi come in un blackout permanente, i corpi dell'opera procedono per stazioni obbligate, vanificando di fatto ogni verosimiglianza dell'azione, come frutti drogati di una sbornia percettiva che muta di volta in volta realtà e cornice dell'esistenza. Si riprende lo schema di un cinema serializzato e lo si fa sballare, mandandolo in tilt, firmandone passo dopo passo la metastasi definitiva. E' un bel gioco quello di Kaufman anche perché vi tira un'aria che non sappiamo ben definire: il sangue è molto più sangue di quello che appare in film analoghi, la notte più buia e il corpo viene osservato con un'insistenza stranamente sfuggita ai censori e ancor prima ai produttori del film. Ecco, la scena di Kaufman sembra immaginata/sognata da Sade in uno dei deliri del film precedente del regista (lo straordinario Quills): un corpo rinchiuso in una stanza ad immaginare l'esterno, a sognare di un cinema intessuto su realtà improvvisamente slabbrate e su movimenti sempre abortiti. Lo abbiamo prima definito come cinema manicomiale perché ci pare una formula che ben rappresenta e significa l'essenza di uno sguardo imprigionato (quello della Judd, incantato sulla foto di un vecchio omicidio che le ha segnato la vita) e quella di una barriera sottile e impenetrabile che divide il dentro, la fessura, il cut del cinema forse, da un fuori che mima la condizione precedente, producendo ibridi incasellabili, allergici ad ogni tipo di diagnosi e di analisi. Il cinema di Kaufman  (r)esiste, entrando ed uscendo dai sensi, facendo del cinema un qualcosa che ci eccede, superandoci…

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