"Confidenze troppo intime", di Patrice Leconte

Leconte sbaglia porta ed entra, cosicché lo spettatore s'insinua come mediatore invisibile tra giochi di sguardi e complicità inespresse. Raccontare tutto e mostrare nulla: l'erotismo suggerito della parola, l'occupazione di uno spazio ristretto in cui oscilla il mistero del thriller sentimentale e la svagatezza platonica del desiderio.

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Con Leconte il cinema sbaglia porta ed entra, cosicché lo spettatore s'insinua come mediatore invisibile tra giochi di sguardi e complicità inespresse. Raccontare tutto e mostrare nulla: l'erotismo suggerito della parola, l'occupazione di uno spazio ristretto in cui oscilla il mistero del thriller sentimentale e la svagatezza platonica del desiderio. Una giovane donna (sensualmente sbadata, Sandrine Bonnaire) entra in uno studio credendo che sia quello dello psichiatra. In realtà, si trova al cospetto di un commercialista (Fabrice Luchini che sbalordisce per sottrazione mimica). Il malinteso non impedisce l'avvio della terapia. Problemi di coppia, confidenze intime, aperture inaspettate, confondono i tabù: tasse e inconscio. Problemi di dichiarazione e di sommerso. Il set(ting) è come l'auto di Tandem, l'appartamento di Monsieur Hire, il salone de Il marito della parrucchiera: costanti spaziali di un universo stilistico e tematico che intrappola l'immaginario nel classicismo di una forma rassicurante (il regista, ancora una volta, si affida alla fotografia di Eduardo Serra e alla scenografia di Ivan Maussion). Esplorare spazi chiusi per braccare il "fantastico" dell'essere naturalmente ambigui. Ma qui la lentezza è provata  sulla pelle, lo scenario è alienante perché i personaggi faticano ad abitare la storia del loro "non detto". È paradossalmente esplicito il cinema di Leconte, come il finale che protende alla luce, come il simbolismo talvolta estremamente smaccato: vedi i giocattoli del commercialista che sottendono una regressione infantile o l'opposizione marcata delle caratterizzazioni. Confessare la propria solitudine, perdersi e ritrovarsi, trasparenti giochi linguistici tra voyeurismo e campi-controcapi tirati alla corda, sono la quintessenza del cinema anni cinquanta e della grande tradizione psicoanalitica francese (anche se l'autore ha ammesso di saperne poco di Freud e compagni). L'eredità ha un peso, l'intimità una misura: fatalmente co(stretto) a districarsi nell'angusto metraggio, Leconte scopre diagonali di sguardi e d'intenti assopiti o nascosti nello sfondo di esistenze sfumate. Lavorare su se stessi e scegliere il punto di ripresa, l'inquadratura che abbia un valore (est)etico, che catturi la fugacità di un pensiero sibilante e la "posizione" moralista defraudante. Il "kammerspiel" s'intromette ma non soffoca: semmai, sulle prime, barcolla quasi distrattamente, come fosse impreparato o sorpreso fino al trasloco che ristabilisce gli ordini interni. E se fosse stato un uomo a sbagliare porta?                  

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Titolo originale: Confidences trop intimes


Regia: Patrice Leconte


Interpreti: Fabrice Luchini, Sandrine Bonnaire, Michel Duchaussay, Anne Brochet, Gilbert Melki, Laurent Gamelon


Distribuzione: Lucky Red


Durata: 104'


Origine: Francia, 2003


 

 

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