La foresta dei pugnali volanti, di Zhang Yimou
Dedicato alla memoria di Anita Mui, rappresenta uno dei punti più alti del cinema del regista, con forme nascoste e vibranti di un acceso erotismo e una geometricità di impressionante precisione.
La rarefazione e l’essenza. Zhang Yimou, con La foresta dei pugnali volanti, realizza una della sue opere più imprevedibili, in linea con Hero (film realizzato nel 2002), piena di una totale contrapposizione tra azione e silenzio, tra immagini che accumulano dettagli e il vuoto assoluto. Il film è ambientato nella Cina del 859 dove la dinastia Tang e il governo corrotto lottano contro un gruppo di ribelli sempre più numerosi chiamati “house of flying daggers” (letteralmente “casa dei pugnali volanti) e vede protagonisti due capitani, Leo e Jin e un’affascinante rivoluzionaria cieca di nome Mei. Nel corso del film, i personaggi rivelano ben altre identità da quelle che mostrano inizialmente. Yimou realizza così un film sul doppio, sull’inganno, di un eroismo rarefatto e pulsante in pieno dentro le coordinate del wuxiapian (“cappa e spada”). Più che alla magia fantasmatica di Ang Lee di La tigre e il dragone, La foresta dei pugnali volanti sembra rifarsi a certe certe coordinate nei movimenti del cinema di King Hu, oltre ad amplificare quell’estensione dello spazio che è sempre tra i tratti caratteristici di un cineasta dotato e discontinuo come Yimou. L’opera, presentata all’ultimo Festival di Cannes fuori concorso e dedicato alla memoria di Anita Mui, rappresenta uno dei punti più alti del suo cinema, con una sensualità che accenna forme nascoste e vibranti di un acceso erotismo simile a Lanterne rosse ed evidente in ogni contatto fisico tra Leo (che si fa chiamare wind, vento) e Mei, oppure in quella straordinaria scena della danza iniziale dove Meisi spaccia per una ballerina cieca e comincia a danzare facendo sbattere i veli del vestito sui tamburi e origina quel suono che poi si perpetuerà in tutto il film, tra lanci di pugnali, alberi che cadono, con una geometricità di impressionante precisione.
Yimou, come Kitano in Zatoichi, gioca per gran parte del film su un ribaltamento dello sguardo e del senso; si pensa infatti la protagonista non veda e che non possa vedere i nemici che la fronteggiano ma soprattutto si pensa che possa utilizzare solo il tatto (e di conseguenza, l’istinto) e non la vista. Ancora Kitano torna in La foresta dei pugnali volanti in quei colori dei paesaggi tra il verde sbiadito e il giallo come Dolls, paesaggio sempre provvisorio, atto sempre di successive metamorfosi nelle ellissi temporali e che muta in maniera definitiva, straordinaria, nel bellissimo finale dove le parole sono come annullate. Restano aperti silenzi, i rumori del vento e un cambiamento climatico che si avverte quasi a livello epidermico. Dal verde si passa al bianco della neve. Due uomini e una donna che combattono. Oltre il limite del tempo. In quel biancore, con gocce di sangue che cadono, c’è tutta la forza visiva e plastica di un film da non perdere, tra i migliori e tra i più inattesi di questa stagione.
Titolo originale: Shi mian mai fui
Regia: Zhang Yimou
Interpreti: Takeshi Kaneshiro, Andy Lau, Zhang Ziyi, Song Dandan
Distribuzione: Bim
Durata: 119′
Origine: Cina/Hong Kong, 2004
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani