FILM IN TV: "Animal House" di John Landis

Tozzo, occhi e capelli neri, la carnagione olivastra a tradire origini albanesi, in "Animal house" Belushi entra in scena pisciando sui pantaloni del coprotagonista; prosegue sputando cibo sulle signorine o sequestrandole di forza, sfasciando qualsiasi cosa gli capiti per le mani, usando la testa per rompere bottiglie. Sabato 12/11 all'una su Italia 1.

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Era l'anno seguente all'uscita di "Never mind the bollocks" dei Sex Pistols, e il "detroy!", con cui Johnny Rotten aveva segnato il capolinea della fuga libertaria hippie, già echeggiava nel tetro anticamera degli anni '80. Era l'anno del rapimento Moro, dell'attacco al cuore dello stato da parte dei teorici della guerra in ritardo; era l'anno dell'esplosione dell'immagine cinematografica come produzione di senso, come annunciava Fassbinder nel finale de Il matrimonio di Maria Braun. Animal house, terzo film di John Landis, fece saltare in aria quanto rimaneva: il set (non c'è praticamente una scena in cui un oggetto non vada in pezzi o qualcuno non si faccia male), ma soprattutto la patina di decoro intellettuale grazie alla quale la Hollywood anni '70 aveva riacquistato posizioni di mercato, e che esibiva così fieramente. Il successo del film portò alla ribalta il cosiddetto umorismo demenziale, che ordiva ai danni di quel cinema ciò che i membri del gruppo Delta ordivano ai danni del corteo del Faber College nel finale del film: un sabotaggio. Ma se è vero che gli svogliati e caciaroni universitari del circolo Delta, in lotta contro i fascistelli Omega e il fascistissimo rettore, sono i progenitori dei ragazzi di Porky's e degli eroi del neodemenziale (American Pie), è altrettanto vero che nessuno dei nipoti ha avuto sul cinema coevo l'effetto devastante del capostipite. La miccia non fu cartacea, sebbene tra gli sceneggiatori figurasse Harold Ramis, bensì corporea: la delusione e la furia nichilista di una generazione affidarono allo scarso metro e sessantacinque di John Belushi l'ultimo colpo d'ala, l'ultimo tragico sberleffo. Tozzo, occhi e capelli corvini, la carnagione olivastra a tradire origini albanesi, Belushi entra in scena pisciando sui pantaloni del coprotagonista; prosegue sputando cibo sulle signorine o sequestrandole di forza, sfasciando qualsiasi cosa gli capiti per le mani, usando la testa soltanto per sventrare lattine e bottiglie. Ecco cosa restava delle utopie hippie-marcusiane di liberazione del corpo, rovesciate nel paradosso del libero autolesionismo, dell'esibizione di ogni sgradevolezza (da noi imperava il cinema "scoreggione"), di una gestualità felicemente brutale. L'anarcoide, scoppiatissimo Belushi resisterà a se stesso per pochi altri film, giusto il tempo perché Landis lo renda immortale con The Blues Brothers dando origine a un culto prima sotterraneo, oggi trasversale, che fa dell'attore una "spiritual guidance" per gli adepti di un cinema senza padroni. Più o meno.

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ANIMAL HOUSE di John Landis (USA 1978, 110')
con John Belushi, Tim Matheson, John Vernon, Cesare Danova, Karen Allen, Verna Bloom
Sabato 12 novembre ore 01:00 su Italia 1.


 

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