FILM IN TV: "Lo specchio della vita" di Douglas Sirk

L'ormai logoro luogo comune secondo il quale la filosofia del regista è l'inquadratura si applica perfettamente a Sirk, il quale asseriva che "non si può fare un film su qualcosa, ma soltanto con qualcosa": con i fiori, con gli specchi, con il sangue, con le persone e le parole. Venerdì 24 marzo su Rete 4.

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A oltre trent'anni dalla rivalutazione di R.W. Fassbinder, è lecito chiedersi oggi se il processo di beatificazione critica subito da Douglas Sirk (nato Detlef Sierk, 1900-1987) gli abbia giovato o meno; se, come si chiedeva Giovanni Spagnoletti, il regista tedesco di origine danese non sia rimasto imbalsamato nel novero degli autori più citati che conosciuti. Regista teatrale nella Berlino infuocata degli anni '30, amico di Max Brod e Franz Kafka, diresse alcuni drammi popolari per l'UFA sino al '37, quando emigrò a Hollywood. Diresse noir (Donne e veleni), commedie (Desiderio di donna), perfino western (Il figlio di Kociss), ma fu il grande successo di Magnifica ossessione (1954) a fare di lui un maestro del melodramma hollywoodiano. La sua posizione nei confronti della società americana che raccontava fu sempre fortemente critica, e la sua mimesi mai pacifica. Dopo Lo specchio della vita, remake del film di un film di John Stahl del '43 e suo più grande successo di pubblico, il suo potere contrattuale era pressoché illimitato; eppure, all'apice della sua carriera, Sirk decise di tornare in patria, a Monaco, come regista teatrale. Il suo cinema, intessuto di lacerazioni e sradicamento esistenziale, riflette sempre il proprio personale smarrimento tra le inquietanti pieghe della modernità, ma anche l'impossibilità di un ritorno alla semplicità, alla purezza. Ne Lo specchio della vita il rifiuto che Sarah Jane oppone alla madre Annie, fondatosi su insanabili questioni di ordine sociale, non può che sfociare in tragedia laddove la rottura tra Lora e la figlia Susie, che si contendono lo stesso uomo, si potrà ricomporre in seno alla loro prosperità economica: Weber batte Freud due a zero proprio sul suo terreno, il mélo. L'ormai logoro luogo comune secondo il quale la filosofia del regista è l'inquadratura si applica perfettamente a Sirk, il quale asseriva che "non si può fare un film su qualcosa, ma soltanto con qualcosa": con i fiori, con gli specchi, con il sangue, con le persone e le parole. Ne Lo specchio della vita la millimetrica organizzazione spaziale, il passo uno dell'emozione, non offusca ma esalta la semplicità della materia primaria. Poiché si parla di mélo, si può affermare che in Sirk la modulazione della voce non travolge l'enunciato nè la significazione. E poiché proprio l'origine Secentesca del mélo riporta a una riqualificazione della parola in senso musicale, come non menzionare quell'eroina tragica, a metà tra Tennessee Williams e Puccini, che fu Lana Turner? Un'infanzia in Idaho segnata dalla morte violenta del padre minatore; l'esordio cinematografico a soli sedici anni, in Vendetta di Melvyn Le Roy; la consacrazione nel ruolo assai calzante di alcolizzata ne Il bruto e la bella di Minnelli; sette matrimoni, altrettanti divorzi e uno stuolo di fidanzati tra i quali il boss mafioso Johnny Stompanato, il quale ebbe la bella idea di morire pugnalato nel salotto della diva. Fu la figlia della Turner a confessare l'omicidio, maturato in un clima di ripetute violenze; ma i sospetti sull'attrice sono sopravvissuti alla sua morte, sopraggiunta nel 1995. Quando si dice che il cinema è Lo specchio della vita      

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