I FILM IN TV – Il film della settimana: VOGLIAMO VIVERE di Ernst Lubitsch

Venerdì, sabato e domenica "Fuori Orario" si unisce, in modo singolare, al ricordo dell'olocausto e della Germania nazista con alcuni indimenticabili film raccolti in un palinsesto dal titolo "La vita è bella, la memoria è sterminata". Tra di essi abbiamo scelto il capolavoro di Ernst Lubitsch.

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Una irrevocabile lacerazione. Vogliamo vivere di Ernst Lubitsch è un film iscritto nella evasiva sublime leggerezza della maschera, in una illusorietà scenica che si nutre del suo stesso inganno (nella Varsavia del 1939 la compagnia teatrale guidata da Josef Tura/Jack Benny sta preparando uno spettacolo dal titolo Gestapo, la commedia sarà censurata con l'inizio della guerra e l'invasione della Polonia da parte della Germania di Hitler. La compagnia ripiegherà, allora, sull'Amleto di Shakespeare, ma per evitare la scoperta e la repressione dei partigiani dovrà (ri)mettere in scena nella "realtà" un imbroglio che ha come protagonisti i gerarchi nazisti). Un film in cui la reverie teatrale è il referente da cui partire per rileggere la storia come un atto in divenire (il film fu girato tra il novembre e il dicembre del 1941, fu quindi durante la lavorazione che gli americani subirono l'attacco di Pearl Harbor e dichiararono guerra a Giappone, Germania e Italia). Opera di una espressività polisemica in cui Lubitsch mette in luce le incongruenze, le contraddittorietà, le nascenti lacerazioni, con una strategia ingegnosa di filmare la verità attraverso le forme stravolte del capovolgimento. Fissa il flusso (ir)reversibile del tempo in un gioco di pieni e di vuoti, di presenze e assenze, dove ciò che conta, più che l'individuazione di chi inneschi, di volta in volta, il meccanismo, è forse il suo ritmo bilanciato di sospensioni e ritorni, riflesso nei/dei corpi attoriali, come (in) quello di Carole Lombard (Maria Tura fu la sua ultima interpretazione, l'attrice perse la vita in un incidente aereo avvenuto a film non ancora terminato); il suo è un corpo sospeso, capace di rievocare il tempo, la memoria, l'identità, l'attesa esiliante del proprio dover essere precipite, del proprio voler essere-sé. Così nella ricostruzione scenografica degli esterni (la Varsavia, devastata dai bombardamenti tedeschi, ricostruita come in un attraversamento scenico e illuminata dalla fotografia di Rudolph Maté, già collaboratore di Murnau, Dreyer, Hitchcock e Clair), il film ha la forza di rendere immaginario un luogo reale, come la Budapest di Scrivimi fermo posta diretto nel 1940.

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Vogliamo vivere è un film di maschere lievemente angosciate di fronte alla divagante e smagante mise en scene lubitschiana della storia. Corpi che si offrono e s'offrono alla/della inevitabile ribalta del proprio essere nel mondo. Estratti erranti di un testo irripetibile come la vita, liminare alla composizione semica/scenica di un gesto/segno che ama ossessivamente ripetere/ricordare a se stesso di non poter non essere vivo nella smagliante, rovescia ritessitura dell'esistere (to be or not to be, essere o non essere, l'ossimoro che (ri)apre il monologo dell'Amleto shakesperiano e su cui sembra continuamente interrompersi lo spettacolo). I corpi di Lubitsch tracciano sguardi che si incrociano, che sfidano l'osservazione dell'essere e del nulla in un'analitica che svela e insieme maschera il fondo melanconico di una follia sconfortante, in un reticolo dove l'apparenza diviene realtà e l'orrore si insinua perversamente dietro la quotidianità: "Non ho mostrato camere di tortura, flagellazioni, nazisti sovraeccitati con la frusta. I miei nazisti sono diversi, hanno passato questo stadio. Le sevizie e le torture sono diventate la loro routine quotidiana" (come scrisse il regista in una lettera aperta al New York Times per far fronte alle critiche di chi gli rimproverava di aver rappresentato dei nazisti stupidi e non pericolosi). Ma Lubitsch ci trasporta oltre, in una piacevole riflessione metaforica sull'arte, nonché sull'evasione legata alla finzione scenica o sull'evasione come necessità di eludere la propria presenza, di nasconderla agli altri, o di illuderla (nel significato etimologico di metterla in gioco) assumendo l'aspetto di un'altra persona, come con le maschere del teatro antico. Così Lubitsch riesce ad eliminare il vuoto, attraverso il tentativo, paradossale, di evadere lo spazio e in quello, riuscito, di evadere la/dalla propria condizione di scacco, senza però rifiutarne l'essenza. Quello di Vogliamo vivere è quindi uno spazio (dis)simulato che introduce ad una nuova rappresentazione, che evade l'ordinario per restituirsi all'esistenza con una maggiore consapevolezza di sé.

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