VENEZIA 62 – "13 (Tzameti)" di Gela Babluani (Giornate degli autori)

Cinema della crudeltà, ma siamo lontani dalla spettacolarità e dai virtuosismi di un Fight club: Babluani gira in un bianco e nero da film muto sovietico, punta al controllo rigoroso delle immagini, non indugia in dialoghi e ragionamenti pseudofilosofici, non dà spazio alla musica, la colonna sonora è tutta fatta di ansimi, tremori, brusii indistinti

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Giocare/giocarsi la vita…  E' una vera sorpresa questo 13 (Tzameti), lungometraggio d'esordio del giovane regista di origine georgiana Gela Babluani, un'opera  dura, a tratti scioccante, tesa come una corda di violino, una crudele variazione sul tema del caso e della fortuna, ma anche una discesa negli inferi. Sébastien (George Babluani), operaio ventiduenne, si trova invischiato in un assurdo giro di scommesse, uno sporco gioco al massacro in cui la vita è appesa ad un filo. Per quanto egli si sforzi di dominare gli eventi, il suo destino è in balia di fattori imponderabili. Il coraggio, l'esperienza, l'intelligenza contano poco, basta un semplice numero a cambiare tutto: se il 13 porta fortuna, il 12 può rivelarsi fatale, come in una roulette giocata sulla propria pelle. Cinema della crudeltà, si potrebbe dire, ma siamo lontani dalla spettacolarità e dai virtuosismi tecnici di un Fight club:  Babluani gira in un bianco e nero da film muto sovietico, punta al controllo rigoroso delle immagini, non indugia in dialoghi e ragionamenti pseudofilosofici, non dà spazio alla musica, la colonna sonora è tutta fatta di ansimi, tremori, brusii indistinti. Se da un lato conferisce profondità agli spazi, giocando sul contrasto luce/tenebra, dall'altro imprigiona i volti dei suoi personaggi in una bidimensionalità astratta: siamo di fronte a vere e proprie maschere, prive di uno spessore psicologico, marionette in balia di un caso invisibile e in preda a sentimenti primari, come la paura, l'avidità, l'istinto di sopravvivenza. In più di un'occasione, il rigore ascetico della regia e lo sguardo fisso, inespressivo del protagonista sembrano guardare a Bresson. E come in ogni film del regista francese, anche qui tutto assurge alla dimensione di una parabola sul destino umano, tutto si gioca sul contrasto libertà-caso. Un ritmo tutto diverso, in cui manca la dimensione trascendentale, ultraterrena, è vero… ma l'immagine finale, quel volto di Sébastien che sembra quasi dormire tranquillo, appare come il segno di una pace finalmente raggiunta.

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