VENEZIA 62 – "Good Night, and Good Luck.", di George Clooney (Concorso)

Clooney realizza un film secco e asciutto, gelido, controllato e meticoloso, che ci restituisce l'immagine di quest'uomo perennemente con la sigaretta in mano che dagli schermi tv della golden age americana invitava i suoi connazionali a riflettere e a pensare con la propria testa. Ma ci mancano le storie private di questi magnifici personaggi…

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Qualcuno dei nostri grandi critici e giornalisti cinematografici aveva rimproverato recentemente al Direttore della Mostra Marco Muller di snobbare il cinema impegnato, politico, preferendo invece cineasti più "artistici" e magari "visionari". Beh a costoro, anche per capire che cos'è "politico" da trent'anni a questa parte, noi suggeriamo di vedere Les amants regular di Philippe Garrel, di cui parleremo nei prossimi giorni, dove la politica esplosa nelle piazze del maggio '68 parigino entrava fin dentro le vene, le viscere e i cuori dei giovani protagonisti. Ma il buon Muller, che conosce i suoi polli, ha preferito una risposta meno complessa e sofisticata e invece, al contrario, assai provocatoria. Volete il cinema impegnato? Eccolo! E con il sorriso sotto i baffi (che non ha) ci ha regalato l'opera seconda  di una delle più grandi star del firmamento hollywoodiano contemporaneo, George Clooney. Il quale in verità ha davvero fatto un film serio e, a suo modo, prezioso, talmente intriso della volontà di rappresentare un'idea e una determinazione morale (e politica) da lasciare fuori tutto il resto, ovvero le relazioni personali, gli amori, il quotidiano, insomma tutte quelle piccole grandi cose che rendono sempre terribilmente magnifico il cinema americano. Via tutto, resta solo il plot, il cuore del problema. Che per Clooney, che è figlio di un giornalista, è la forza della ragione e della volontà assoluta a rispettare i "grandi principi" sui cui si forma l'America. La libertà dell'individuo, in primis. Come pure quella di manifestare liberamente le proprie opinioni.

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Ed ecco dunque questo ritratto di Edward R. Murrow, una delle icone del giornalismo televisivo americano, colui che nel pieno della caccia alle streghe instaurata dal senatore Joseph Mc Carthy negli anni Cinquanta, ebbe la forza e il coraggio di opporsi, con fierezza e grande capacità di controllo delle parole e delle informazioni, all'ondata antiliberale che, sfruttando l'anticomunismo esploso con la nascita della Guerra Fredda, stava travolgendo le menti più aperte e intelligenti del Paese.  Ecco il paradosso di Hollywood: l'attore più divo degli ultimi anni (con Brad Pitt) che spara a zero (non in conferenza, però, perché gli americani da sempre preferiscono parlare più con le loro opere che con i discorsi barricaderi alla stampa) contro coloro che usano l'arma della paura per limitare le libertà degli individui. Sentite cosa dice Clooney: "C'è la possibilità che un giovane su cento che oggi non sa chi sia Murrow riesca, grazie a questo film, a conoscerlo e a interrogarsi sui seri pericoli che una democrazia come la nostra corre quando la paura (per esempio del terrorismo) viene usata come unìarma".  Il comunismo negli anni Cinquanta, dunque, e il terrorismo oggi. Due spettri americani per due guerre "immaginarie" ma terribilmente reali.


La storia vide, curiosamente, "perdenti" entrambi i protagonisti di quest'epico scontro: Mc Carthy fu messo a sua volta sotto processo dal senato anche grazie alle alle accuse che la stampa e la tv più aperte gli avevano mosse, mentre il vincitore Murrow si ritrovò a perdere la sua trasmissione di punta del martedì sera.


Clooney sceglie il bianco e nero quasi per necessità, essendo all'epoca la tv in bianco e nero e scegliendo di non far interpretare il senatore Mc Carthy da un attore, ma invece utilizzando esclusivamente dei filmati repertorio. In questo Clooney è fedele allo stile di Murrow, che  criticava il focoso senatore utilizzando esclusivamente le parole che Mc Carthy pronunciava in continuazione alla tv.  Alla fine ne vien fuori un film secco e asciutto, gelido, controllato e meticoloso, dove stravince la recitazione "classica" di David Stratharn, che ci restituisce l'immagine di quest'uomo perennemente con la sigaretta in mano (altri tempi…) che dagli schermi televisivi della golden age americana invitava i suoi connazionali a riflettere e a pensare con la propria testa, un esempio di giornalismo "civile" che oggi sembra sempre più difficile da trovare.


Eppure, a voler essere sinceri, ci mancano davvero le storie private di questi magnifici personaggi, di questo cast strepitoso, e quanto vorremmo sapere di più di Joe e Shirley  Wershba (Robert Downey jr e Patricia Clarkson – che da soli valgono già il film) e di tutti gli altri esseri umani, con lel oro vite che sfuggono dannatamente da questo film, cosi deciso a concentrasi unicamente sul "messaggio" da dimenticare il cuore del cinema… Ma si può criticare George Clooney rinfacciandogli di non essere abbastanza hollywoodiano? Sarà colpa delle amicizie (in produzione, ricordiamo) dell' "indipendente" d'oro Stephen Soderbergh?

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