"Truman Capote: A sangue freddo" di Bennet Miller

Il film di Bennet Miller suscita un irrefrenabile susseguirsi di sentimenti contrastanti, di lunghi silenzi di riflessione, di silenziose parole, di immagini che saziano e straziano. E “Capote” non è altro che "l'opera" (forse, chissà, definitiva) sulla tragedia americana.

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Di tanto in tanto ci troviamo di fronte a certi film che per la loro forza, per la loro natura e per l'energia che emanano, ci suscitano una tale emozione che difficilmente può essere descritta. E il film diretto da Bennet Miller suscita un irrefrenabile susseguirsi di sentimenti contrastanti, di lunghi silenzi di riflessione, di silenziose parole, di immagini che saziano e straziano. E Capote non è altro che "l'opera" (forse, chissà, definitiva) sulla tragedia americana.

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Il film ripercorre quello che fu uno dei casi di cronaca nera che inchiodò l'America degli anni Sessanta. Parliamo di Truman Capote il quale, dopo aver trascorso sei anni tra ricerche e interviste, pubblicò il romanzo veritè dapprima a puntate su The New Yorker nell'autunno del 1965 e successivamente come libro l'anno successivo. Come è lontana la New York fatta di luci e di circoli letterari, di intellettuali e di uomini ambiziosi in cerca di un definitivo successo, da quel Kansas lontano, dove avviene la brutale strage a opera di due giovani, figli del lato oscuro del pianeta America, Perry Smith e Richard Hickock interpretati rispettivamente da Clifton Collins e Mark Pellegrino.


Miller si immerge nell'America a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, tra conformismo e i primi fervori di una nuova epoca in arrivo, tra il mondo dorato dell'establishment intellettuale (che tra l'altro vede la presenza nel viaggio verso gli inferi di Harper Lee, fedele collaboratrice dello scrittore e autrice di Il buio oltre la siepe) e la desolazione di un'umanità allo sbando, un mondo pieno di contraddizioni, ma anche di grandi passioni e turbamenti (come è dimostrato dal crescente peso professionale e emotivo dell'intera vicenda) dove convivono le anime di Truman Capote, il brillante scrittore di Colazione da Tiffany che affascina, ammalia, personalità ricercata e ammirata da tutti; e quella nera, disperata di Perry e Richard, uomini allo sbando che uccidono e massacrano un'intera famiglia senza apparente ragione.

Capote, tratto dall'omonimo libro di Gerald Clarke, è un film di grande potenza, dove lo sguardo disincantato del regista e in cui la monumentale interpretazione di Philip Seymour Hoffman (capace non solo di rendere assolutamente credibile il personaggio Capote, ma -ed è forse questa la cosa di più assoluto valore del film- di penetrare nell'animo umano e di coglierne le sfumature, le contraddizione, le attese e le delusioni e soprattutto esplorare quel mistero che si nasconde dietro le cose) si avvicinano e si sfiorano raggiungendo la più alta forma di intensità e purezza. Capote è la storia dell'intellettuale che scopre un mondo sconosciuto, ne rimane affascinato (il rapporto tra lo scrittore e il giovane Perry, negli anni che vanno tra la cattura e la successiva prigionia fino all'impiccagione, avvenuta il 14 aprile 1965, si evolve in un intimo, difficile impossibile rapporto sentimentale), ma finisce per rimanerne intrappolato e profondamente indeciso se proseguire il proprio lavoro o abbandonare tutto. E questo dilemma esistenziale sarà fatale a Capote, incapace, dopo questa estenuante esperienza, di terminare un altro romanzo.

Titolo originale: Capote


Regia: Bennet Miller


Interpreti: Philip Seymour Hoffman, Chris Cooper, Catherine Keener, Clifton Collins Jr


Distribuzione: Sony Pictures


Durata: 113'


Origine: USA, 2005

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