"Hostel", di Eli Roth
Nuova ricognizione nei territori dell'estremo e dell'assurdo per un film annunciato come un pugno nello stomaco, ma che in definitiva si risolve in un lavoro freddo e privo di guizzi. Un peccato per il regista del sorprendente "Cabin Fever".
Un regista atipico: è quanto pensammo di Eli Roth dopo la visione di Cabin Fever, tra i migliori esordi horror degli ultimi anni. Atipico per le influenze che chiaramente emergevano dal suo lavoro, ma anche per una tendenza a mescolare i toni e a muoversi con agilità nell'impervio confine tra il freddo esercizio di stile e l'appassionata indagine dei codici tematici e visivi del genere. Sicché non ci stupisce affatto notare come l'opera seconda vada in esatta controtendenza rispetto a quel piccolo cult: Hostel è infatti una produzione impegnativa, che si snoda con un budget di rispetto nel cuore della Vecchia Europa, sotto l'egida produttiva di Quentin Tarantino e i marchi Lions Gate e Sony/Screen Gems – come a dire il sacro e il profano, mercificazione e creatività, un'altra coesistenza di opposti in fondo. Ma soprattutto Hostel è un film che vuole porsi come opera estrema e intensa, guidando lo spettatore in un dedalo di perversioni e misteri radicati nel cuore di un'Europa ribollente di umore nero, una sorta di Far East (dal punto di vista che può adottare un americano perlomeno) per amanti di esperienze terminali.
L'insieme però si snoda in modo contraddittorio e a conti fatti parecchio deludente: da un lato, infatti può essere apprezzabile l'intento teorico di un recupero degli stilemi radicali che rimandano a certo cinema anni Settanta, all'exploitation più feroce e agli eccessi di alcune pellicole nipponiche (da cui il cameo di Takashi Miike), evidenti anche nell'anacronistico avviso che campeggia sulle locandine e che scoraggia i paurosi a entrare in sala, come accadeva con i cannibal-movies di trent'anni fa.
Parimenti è interessante la struttura a blocchi che dipana la discesa negli inferi a partire da un tono goliardico/demenziale che guarda al teen-movie anni Ottanta. Ma è la freddezza di sguardo (la stessa che in Cabin Fever risultava ben contestualizzata) a far crollare miseramente la seconda parte, quando l'ingresso nell'altrodove impregnato di morte risulta vacuo e debole: Roth mette in scena la sua idea in modo lineare e "corretto", ma pecca in capacità di rielaborare l'immaginario in modo da far risultare il suo film davvero disturbante e intenso, sia dal versante visuale che emotivo. La violenza ha così un sapore falso e reticente, e tutto risulta privo di guizzi e della capacità di sorprendere amalgamando gli opposti, aprendo la struttura a quei voli pindarici nell'assurdo che invece il progetto sembrava promettere.
La sceneggiatura prevedibile e poco interessante inoltre non aiuta e così il lavoro di ricontestualizzazione di stilemi e cliché appare consunto e di riporto, i personaggi non scatenano l'empatia dello spettatore e l'attesa si stempera nella noia del prevedibile. Il tutto ha il sapore di uno scherzo preparato a tavolino e forse in questo sta il senso dell'operazione che, come accade con i giovani protagonisti, attira gli spettatori inconsapevoli con la promessa di emozioni forti, salvo smentire poi le attese. Se tale era l'intento – e gli incassi sono lì a plaudire la potenziale furbizia degli autori – allora l'obiettivo è raggiunto.
Titolo originale: Hostel
Regia: Eli Roth
Sceneggiatura: Eli Roth
Interpreti: Jay Hernandez, Derek Richardson, Eythor Gudjonsson, Barbara Nedeljakova, Jana Kaderabkova, Jan Vlasák, Jennifer Lim
Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
Durata: 95'
Origine: Usa, 2005