"Il diamante bianco" di Werner Herzog

Herzog gira documentari che negano le idee stesse di documentare, documentato, documentabile, proprio attraverso l'esaltazione del loro carattere esemplare. "Il diamante bianco" ha il respiro, le modulazioni, il carattere di un grande film hollywoodiano.

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Palloni che si incrociano. Uno, bianco e nero, piroetta sotto i cieli di Germania tra le gambe dei danzatori sudamericani; l'altro, tutto bianco e oscillante sopra foresta della Guyana, accompagna l'ultimo sogno dell'Icaro del cinema tedesco, Werner Herzog. Da quasi quarant'anni conosciamo la meta della sua irremobile rotta, definita post-romantica con una certa vaghezza (già il romanticismo tardosettecentesco era dichiaratamente "post", come ogni anelito allo spogliarsi di tutto per rivestirsi della nudità dell'archetipo): un luogo in cui la lotta dell'uomo contro la Necessità rispecchia quella altrettanto sacra e titanica dell'artista teso a catturare l'intero universo in un'immagine. Werner Herzog è l'unico cinesta vivente capace di vestire un termine altrimenti pornografico, quando non ridicolo o viceversa troppo seriosamente blasfemo, come "artista"; e proprio in virtù della radice tecnico-manuale del termine, e dell'aura invincibile che lo circonda. Tra le le profondità dello spazio blu (The wild blue yonder) e The grizzly man (visto a Torino), il cineasta bavarese racconta il cielo sopra la foresta pluviale: poi inverte il verso dello sguardo, in una sorta di controcampo, e racconta la foresta pluviale dal cielo. E lo fa inseguendo il sogno di Graham Dorrington, ingegnere aerospaziale londinese e ideatore di un aerostato ad elio. Il suo mancato funzionamento ha causato, undici anni fa, la morte del documentarista Dieter Plage: oltre all'imprevedibilità atmosferica e ai guasti meccanici, è la colpa a tenere ancorato il sogno come una zavorra, echeggiando e dilatando elementi di tragedia classica. Perchè Herzog gira documentari che negano le idee stesse di documentare, documentato, documentabile, proprio attraverso l'esaltazione del loro carattere esemplare. "Il diamante bianco" ha il respiro, le modulazioni, il carattere e i caratteri di un grande film hollywoodiano: immaginatelo girato da Scorsese e ve ne accorgerete. Sempre in tensione tra apertura e chiusura, sempre sul punto di lasciarsi trascinare via dal vento, il film sorprende e affascina proprio per sua la costruzione narrativa, tutta un gioco di semina-attesa-raccolta applicato alla ripresa del vero che fa impallidire, sul loro stesso campo, i pur geniali sceneggiatori di Lost. Anche sulle sorti dei dispersi in Guyana grava un mistero insolubile, il regno dei rondoni celato sotto le cascate di Kaieteur: ma qui l'immagine si sottrae al nostro sguardo (Herzog ha deciso di non inserire le immagini della caverna per rispetto della cultura e della mitologia guyanese). La meta, l'ultima e più sublime meraviglia, può continuare a vivere a patto di restare senza luce, forma e tempo: di farsi immagine. La storia dell'uomo è tutta nella danza sull'orlo di quel meraviglioso nulla: il moonwalking del giovane cuoco guyanese, il passo del gallo, e l'oscillare del diamante bianco sopra la cascata. Puro cinema, si direbbe senza pensarci troppo. In realtà c'è il cinema, c'è il film narrativo, c'è il documentario. E poi c'è Werner Herzog.

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Titolo originale: The White Diamond


Regia: Werner Herzog


Distribuzione: Fandango


Durata: 90'


Origine: Germania, 2004

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