"The Great Raid – Un pugno di eroi" di John Dahl

Nel film di Dahl ogni fotogramma rimane inchiodato in una patina di superficie che vorrebbe essere classicheggiante ma finisce con l'essere scialba riproposizione archeologica di stilemi ormai perduti.

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Diverse novità apprendiamo vedendo il film di John Dahl. Novità che sconvolgono la nostra conoscenza culturale e cinematografica e che ci riportano indietro di quarant'anni almeno. Sono elementi nuovi, spiazzanti, paradossali. Valutando The Great Raid abbiamo infatti la sensazione che tutte quelle trasformazioni ideologiche e formali, che nelle ultime decadi tanto hanno arricchito il cinema bellico statunitense (pensiamo a Coppola, Stone, Spielberg, Malick e al Ridley Scott di Black Hawk Down) siano andati misteriosamente perduti in 'un colpo solo'. Il sospetto che si tratti di una scelta programmatica condivisa dagli stessi realizzatori della pellicola è molto forte. Nel corso dei suoi 130 minuti di durata, infatti, The Great Raid dà proprio l'impressione di essere un prodotto pronto a tutto pur di apparire datato e figlio di quel cinema di guerra celebrativo, manicheo e convenzionale tipico degli anni '50 e dei primi anni '60. Persino la guerra in Vietnam, che in un modo o nell'altro sia nella sua spietata estetica documentaria che nella sua complessità morale, è stata quasi sempre prototipo condizionante anche per quei recenti film di guerra che non la affrontavano direttamente, qui sembra essere mai esistita, né rappresentata cinematograficamente. Curiosa davvero come operazione anche perché Dahl nemmeno spinge il pedale sul citazionismo, ma preferisce un recupero dei modelli senza spirito critico né coinvolgimento emotivo. Tutti gli elementi del film (dai dialoghi alla caratterizzazione dei personaggi – giapponesi cattivi come neanche gli indiani dei tempi d'oro – dal ritmo piano e prevedibile all'elementarità degli snodi drammaturgici, nell'inseguire una dignità old style riescono a raggiungere solo la triste fragilità del prodotto su commissione destinato presto all'oblio.

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Nel film di Dahl ogni fotogramma rimane inchiodato in una patina di superficie che vorrebbe essere classicheggiante ma finisce con l'essere scialba riproposizione archeologica di stilemi ormai perduti che, se a un primissimo impatto, sembrerebbe incuriosire, presto finisce con il denunciare una tale mancanza di vigore creativo. Nel film abbiamo una missione di salvataggio capitanata dal Capitano Prince (James Franco) e il Colonnello Mucci (Benjamin Bratt) finalizzata alla liberazione di prigionieri americani, tra cui il Maggiore Gibson (Joseph Fiennes) in un campo giapponese dentro la foresta filippina, mentre in tutto il resto del mondo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la vittoria degli Alleati appare ormai prossima. Ma i giapponesi non mollano: lo sanno bene gli uomini prigionieri stremati da malnutrizione e malaria e i ribelli filippini capitanati da Margaret Utynski (Conie Nielsen), un tempo amante di Gibson. Tutto qui. Il resto è uno strano trip all'indietro nel tempo, alla ricerca di un cinema perduto.

Titolo Originale: The Great Raid


Regia: John Dahl


Interpreti: James Franco, Connie Nielsen, Benjamin Bratt, Marton Csokas


Distribuzione: Buena Vista International Italia


Durata: 132'


Origine: Australia, Usa, 2005

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