LIBRI DI CINEMA – "Quentin Tarantino. Pulp Fiction" di Alberto Morsiani

Pulp Fiction - Alberto Morsiani«Tarantino ha capito d’istinto, fin da subito, che le immagini sono ormai diventate il nostro vero oggetto sessuale, l’oggetto del nostro desiderio. È la promiscuità, l’ubiquità delle immagini, la contaminazione vitale delle cose da parte delle immagini ad essere la caratteristica fatale del suo cinema, e anche della nostra cultura. Non ci sono limiti a questo, dato che le immagini non sono per nulla protette dalla pullulazione indefinita, non conoscono né sesso né morte. In un’epoca in cui sesso e morte recedono negli anfratti, sono le immagini ad ossessionarci». Da Lindau.

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Pulp Fiction - Alberto MorsianiQUENTIN TARANTINO. PULP FICTION

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Alberto Morsiani

Edizioni Lindau

Finito di stampare nel mese di aprile 2008

Pag. 224 – 18,50 euro

 

 

 

 

 Se Crash di Cronenberg nel ci ricordava, col James Ballard degli anni ‘70, «i due grandi leitmotiv gemelli del ventesimo secolo: sesso e paranoia», Quentin Tarantino, fin da Le Iene nel 1992, e per elezione con Pulp Fiction nel 1994 – ma in tutta la sua filmografia –  getta uno sguardo e dona uno scossone alla cultura del ventunesimo, avendo «capito d’istinto, fin da subito, che le immagini sono ormai diventate il nostro vero oggetto sessuale, l’oggetto del nostro desiderio (e infatti non c’è praticamente sesso, nei suoi film, se non sotto forma di regressione narcisista, come nella sequenza della lap dance in Grindhouse – a prova di morte). Immagini di altri film, di fumetti, delle serie tv… È la promiscuità, l’ubiquità delle immagini, la contaminazione vitale delle cose da parte delle immagini ad essere la caratteristica fatale del suo cinema, e anche della nostra cultura. Non ci sono limiti a questo, dato che le immagini non sono per nulla protette dalla pullulazione indefinita, non conoscono né sesso né morte. In un’epoca in cui sesso e morte recedono negli anfratti, sono le immagini ad ossessionarci» (p. 8, l’introduzione L’alea e la vertigine).

Il testo di Morsiani, proponendosi di sfuggire alla tentazione-caccia al tesoro della sterminata enciclopedia di citazioni e riferimenti – che pure è parte integrante del gioco tarantiniano, ma Butchè stata ampiamente giocata con passione nel corso degli anni e può diventare sterile o riduttiva – percorre liberamente tutta la carriera di Tarantino attraverso l’ossatura che la sorregge: una totale aderenza ai nostri tempi, malgrado e proprio a causa del continuo richiamo alle forme e ai feticci di altri generi, di altri passati, reali o inventati, e la potenziale inesauribilità della sua “materia prima”, le immagini, accostando la sua libertà di consumo – e di stravolgimento, e di sovrapposizione, degli oggetti che popolano il nostro immaginario, alla nostra solitudine e al nostro piacere narcisistico di consumatori di massa nella società che viviamo. Nei primi capitoli Morsiani va alla ricerca delle radici del gusto di Tarantino per la composizione di una sceneggiatura insieme romanzesca – nel senso più aristocratico della parola – che nel suo cinema svela però anche il “dietro le quinte”, in un certo senso i momenti di lavorazione di un mondo che vive nel tempo di un film – e cartoonesca, dove il chiacchiericcio costante dei personaggi ostenta la loro perenne sovraesposizione a incidenti sanguinari e la loro essenziale coolness si nutre anche di una dimensione profondamente infantile (gli aspetti magici e quasi fiabeschi dell’incontro tra Vincent e la bambina-pupa del boss Mia, i riferimenti continui all’analità, la scena a casa di Jimmie in cui i sicari, stereotipi di se stessi «nel senso che vogliono somigliare soltanto a se stessi» – diventano bambini che hanno combinato un guaio e devono ripulire prima che torni la mamma, l’infermiera Bonnie, almeno fino all’arrivo dell’ineffabile Mr. Wolf che oltre Vincent Vegaa “mettere tutto a posto” toglie anche, letteralmente e metaforicamente, i costumi da gangster alla coppia di killer per conferirgli una inappropriata tenuta di t-shirt e calzoncini) e la loro presenza sulla scena è sempre legata a circostanze casuali, ordinarie, farsesche che essi stessi un attimo prima ignorano, come lo spettatore: Vincent Vega «come uno spettatore che lascia il cinema per qualche minuto per fumarsi una sigaretta o recarsi alla toilette, è un personaggio che lascia di continuo l’azione per poi scoprire, una volta ritornato in scena, che i termini della situazione sono completamente cambiati» (p. 110).

Il libro ha soprattutto il merito di collocare una per una le figure di Pulp Fiction – personaggi di un film che “entrano nel personaggio”, alfieri dei «ruoli non dichiarati che dettano le nostre performance pubbliche» in quei contesti che rappresentano forse la cifra più originale e azzeccata del cinema di Quentin, capace di portarlo oltre la meccanica, ormai convenzionale e da molti imitata malamente, del citazionismo e del frullato pop che gli è stata attribuita: un paesaggio indistinto di tipiche case suburbane, motel, ristoranti – “Città Generica” o junkspace, spazio-spazzatura caotico in cui si cercano punti di riferimento del tutto materiali e “ritornanti”, anche se inventati, come la marca dei cereali o il Jack Rabbit’s Slim’s, luogo-simulacro per eccellenza, che è anche «una buona descrizione dei modi in cui il film stesso simula e rende manifesta la natura fittizia della sua simulazione: “A Wax Museum with a Pulse Rate”» (p. 145); Mia Wallace & Vincent Vegae la particolarissima fruizione del tempo (da cui quella del montaggio) in cui l’orologio, secondo la convincente lettura di Morsiani, è un perfetto esempio di una più generale funzione di duplice inserimento, da parte del film, «nel discontinuo e nell’abituale» – in cui l’esistenza dei personaggi (e la nostra) non viene misurata da una vaga durata cosmica, ma scandita ossessivamente da tempi insieme mutevoli ed esatti, che va a salti e brandelli ma tratteggia con estrema precisione antropologica «i luoghi parziali nei quali si esercita l’attività degli uomini nella loro esistenza giornaliera, comune o banale che sia» in un alternarsi di immobilizzazione e movimento in cui la violenza è un fatto ordinario, sadicamente divertente per la sua gratuità brutale, e il linguaggio (a questi due aspetti è dedicato un approfondito capitolo) è allegorico quanto l’immagine e sfrenatamente pubblicitario, se per Tarantino la pubblicità è a sua volta un prodotto di consumo ed è l’evidenza di una cultura (p. 179). Completano il testo un’antologia critica, l’analisi delle sequenze, una sinossi cronologica, 32 fotogrammi legati a “gesto”, “verbo”, “simulacro” “feticcio” ecc. – i punti chiave rintracciati nel saggio – e un’esauriente bibliografia.

 

INDICE

 

L’alea e la vertigine  p. 7

Il godimento e il feticcio  p. 23

Scheda filmografica  p. 47

Sinossi p. 55

Sinossi “cronologica” p. 59

La storia in sequenze  p. 63

Il gesto e il verbo  p. 103

Il paesaggio e il simulacro p. 123

Il tempo e lo spazio  p. 149

La violenza e il linguaggio  p. 167

Il fato e la grazia  p.186

Antologia critica  p. 195

Bibliografia  p. 211

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