TORINO 23 – "Non mi considero un autore indipendente ma solo un cineasta". Incontro con il regista Lodge Kerrigan

La trilogia (mancata quadrilogia…) di questo importante esponente del cinema (nonostante tutto) indipendente americano presentata qui a Torino, racchiude tutto la sua attuale filmografia, densa di mancanze e presenze forti ma anche di lancinanti gracilità

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Il 41enne newyorkese Lodge Kerrigan, "figura di punta del cinema indipendente americano" (come dichiara il catalogo del festival torinese) dopo studi di filosofia presso la Columbia University e di cinema alla New York University, ha iniziato a calpestare set e dintorni prima come operatore e dopo la realizzazione di videoclip e spot pubblicitari ha racchiuso la sua attività e ottenuto la classificazione riportata in apertura con sole 3 opere lunghe in 10 anni: l'esordio nel 1994 con Clean, Shaven (a Cannes nella sezione Un Certain Regard con apprezzamento di pubblico e critica), storia di un uomo schizofrenico che dopo aver ucciso una bambina cerca di riprendersi la figlia data in affido a una nuova famiglia; Claire Dolan del 1998, con Vincent D'Onofrio e Katrin Cartlidge nel ruolo di una ragazza squillo immigrata nella Grande Mela che batte per estinguere i debiti accumulati col suo protettore e concedersi il sogno di avere un figlio e il recente Keane prodotto da Steven Soderbergh e proiettato l'anno scorso a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs, dove ritroviamo un protagonista diversamente instabile, tormentato dal rapimento della figlia di sette anni. In realtà manca all'appello In god's hands, realizzato anch'esso grazie al sostegno di Soderbergh, nel 2002, interpretato da Peter Sarsgaard ma distrutto per un incidente di laboratorio avvenuto durante le fasi di lavorazione del negativo.

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Tutti e tre i suoi film sono incentrati su un personaggio che potremmo definire malato d' "inassimilabilità" con la società. Come è nata questa poetica?


 


Realizzare film è per sua stessa natura un processo isolante, soprattutto nella fase di scrittura della sceneggiatura e di raccolta dei fondi. Comunque la base dei soggetti delle mie opere, quindi anche della poetica che le sottende, nasce sempre da esperienze personali di vita. Per Clean, Shaven mi sono ispirato ad un amico afflitto da handicap mentali, e l'elemento scatenante è venuto dai media che li indicavano semplicisticamente come soggetti violenti. L'idea per Claire Dolan, invece, mi è venuta in un piccolo laboratorio di Times Square prima che questa venisse "ripulita", quando ancora era popolata da numerose prostitute e quelle incinta mi ricordo che mi provocavano fastidio. Allora mi chiesi perché quelle incinta m'infastidivano e le altre no. Forse aveva a che fare con lo status di essere donna e con quello di essere prostituta. Infine Keane nasce dalla voglia di andar via di mia figlia quand'era piccola e dal fatto che poco dopo la persi veramente anche se per un periodo limitato di tempo, ma non scorderò mai il panico, il terrore e il dolore che provai come padre. Il prossimo film nelle sale sarà comunque un musical! (Ride).

Sembra quasi che ambienti le sue opere nelle testa dei protagonisti. Dove trova l'ispirazione, anche formale, per creare questo effetto?


 


La domanda è estremamente difficile comunque proverò a rispondere. Partendo da Clean, Shaven volevo collocare il pubblico direttamente nella testa del protagonista schizofrenico, cercando di fargli provare i sintomi di quella particolare condizione di malattia, le emozioni, di entrare in empatìa con quella vita. Ora, al contrario, m'interessa essere più obiettivo così colloco gli spettatori nell'ambiente più che nella mente del personaggio. Lascio quindi decidere al pubblico se ciò a cui stanno assistendo è reale o finto. Non ho un particolare stile, tutto dipende dal contenuto in campo, in base al soggetto decido di volta in volta di dare maggiore importanza alla recitazione, alle scenografie, ai movimenti della m.d.p., alla fotografia e così via. Per entrare nel dettaglio per Keane desideravo un'estetica di realismo per ottenere un maggiore impatto, infatti il protagonista Damian Lewis (che interpreta William Keane n.d.r.) è perennemente nell'inquadratura, ci sono solo "jump-cuts" non dei veri e propri tagli.


 


Questa scelta ti ha creato delle difficoltà?


 


Certamente e anche parecchie. Diciamo che è stata una sfida tecnica perché senza stacchi e non avendo il budget per chiudere la zona del set, capitava di girare in questo terminal degli autobus 4 minuti di scena filati e poi di essere interrotti da un gruppo di persone o da singoli che scendevano dagli automezzi e ti chiedevano se stavi girando un film o, distratti, ti entravano in campo e oscuravano Damian o gli altri attori. I ciak quindi sono stati numerosissimi. Altri inconvenienti di tutte queste ripetizioni erano anche che magari un attore era stanco ripetere per l'ennesima volta e aveva perso energia e concentrazione come capitava spesso, ovviamente, a Damien, il quale veniva da esperienze teatrali ma ha trovato subito il ritmo cinematografico, mentre l'altro attore era ancora fresco! Insomma è stata frustrante ma anche divertente come sfida.


 


Cercherà di rifare in futuro il film perduto?


 


La cosa peggiore di una sofferenza così grande come quella di aver perso un proprio film è che continuamente ti ricordano il fatto! (Ride) No, decisamente no. Non amo questo tipo di operazioni e nego che Keane, come ho letto da più parti, sia un remake di questo In god's hands anche perché semplicemente non m'interessano i remake. Da quell'esperienza ho imparato che è più stimolante la creazione che il risultato da presentare al pubblico.


 


 

Come nasce la costruzione del personaggio di Clean, Shaven?


Ho diversi amici che soffrono di handicap mentali e mi sono documentato per anni leggendo e studiando vari casi, ma anche frequentando il Bellevue Hospital di New York. Ora non è più possibile avvicinarne i pazienti e penso che sia giusto perché, in fondo, che diritto abbiamo di invadere la loro privacy? Così per Keane ho frequentato molti homeless ("Senzatetto" ndr) al terminal cui accennavo e ho provato a mettermi nei panni di questa gente che subisce stress enormi (non ha casa, ha problemi di comunicazione sociale…) e ho concluso che probabilmente sarei anch'io aggressivo come loro in quelle condizioni. Del resto siamo tutti esseri sociali.


 


Gus Van Sant, Larry Clark… sente di appartenere a questo gruppo di autori e cosa significa per lei la parola "cinema indipendente"?


 


Questa sì che è una bella domanda! Innanzitutto non mi sento di far parte di questo tipo di autorialità visto che non credo che esista negli Usa un cinema indipendente, credo sia una "prerogativa" dell'Europa, per esempio la Nouvelle Vague all'interno della quale c'era un forum di autori che si trovavano insieme per assemblare pensieri, mettersi in gioco e in discussione. Negli Usa invece ci sono emigranti che fanno cinema o all'interno dei grandi studios o al loro esterno. Solo qui si può ricercare un concetto d'indipendenza "sui generis". Io vivo a New York e non mi trovo con nessun regista cosiddetto indipendente per parlare e scambiare opinioni o idee. Non mi considero un autore indipendente ma solo un cineasta. Se poi volessimo approfondire un po' scopriremmo che non sempre gl'indipendenti sono liberi. Molto dipende dal profitto economico che ricavano dai loro lavori: più è alto e maggiore sarà il tuo controllo. E comunque dopo 10 anni non ci si ricorda del buget dei tuoi film ma solo della loro qualità. Personalmente utilizzo budget molto ridotti per avere la maggiore libertà espressiva.


 


 


 


 

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