TORINO 23 – "Dominion: Prequel to the Exorcist", di Paul Schrader (Americana)

Schrader senza Schrader. Il film maledetto del regista e sceneggiatore statunitense è sicuramente più vedibile di Harlin ma sembra l'opera di un altro regista: composto senza essere classico, raffinato senza essere mai veramente elegante, di un algidità senz'anima come quella del suo Lucifero in posa buddhista

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"Transcendental style in film" è il titolo della celebre tesi del regista sul cinema di Ozu, Bresson e Dreyer, ancora testo di riferimento nella teoria cinematografica degli ultimi decenni. Ma il suo Dominion: Prequel to the Exorcist non è propriamente un film trascendentale. Indubbiamente siamo comunque qualche spanna sopra all'altro prequel "L'Esorcista: la genesi" di Renny Harlin, questo sì arrivato in sala per una sfortunato caso di scelte produttive, ben più spinto sul versante puramente horror con i momenti "shocking dei cimiteriali e apocalittici carrelli che lo aprono e chiudono o con la sequenza del bambino sbranato dalle iene", che avevamo definito "farraginoso" e incapace di volare alle "altezze troppo vertiginose" del capostipite di Friedkin e del capitolo di Boorman. Certo la direzione degli attori è quella del miglior Schrader-regista, a cominciare dal padre Merrin di Stellan Skarsgård, come pure nella scioltezza generale (a tratti singhiozzante nel percepibile solco del non-finito) dello script ritroviamo lo Schrader-sceneggiatore (del quale si senta l'influenza nello screenplay di William Wisher e Caleb Carr) che conosciamo. Ma "ben digerito" il film si rivela, in definitiva, composto senza essere classico, raffinato senza essere mai veramente elegante, di un algidità senz'anima come quella del suo Lucifero in posa buddhista. Una presenza malefica indubbiamente inquietante immersa nella luce verdognola di uno Storaro fin troppo debordante (che non imperversa, comunque, come nel film di Harlin), conturbante proprio perché fuori dalla classica iconografìa cristiana: privo di rossori da fuoco infernale, orecchie appuntite e soprattutto di un viso ossuto e spigoloso ma valorizzato dalla sconvolgente angelicità del viso da ragazzino, in qualità di "grande ingannatore", ulteriormente rilanciata dalla pacificante posa buddhista che confonde ancor più le carte già scompigliate dal vento della menzogniera apparenza.

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