VENEZIA 63 – "Offscreen" di Christoffer Boe (Giornate degli autori)

“Offscreen” sembra appartenere ad un cinema del passato, in cui la gratuità della storia, per i quattro quinti della sua durata e quella del suo finale truculento, per la restante parte, nulla aggiunge alla elaborazione che, dagli anni '70 ad oggi ha segnato le tappe del cinema-verità.

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Offscreen racconta dell'ossessione amorosa e voyeuristica di Nicolas, giovane regista alle prese con il suo primo film. La mania si trasforma in follia per un finale truculento.

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Abbiamo appreso dagli insegnamenti godardiani che in ogni film, anche nei peggiori, ci sono sempre due minuti di cinema da salvare. Con questo viatico ci accingiamo ad affrontare ogni nuova visione. Il problema, spesso è quello di trovarli questi due minuti. In Offscreen si è fatta non poca fatica.


Elucubrazione narcisistica di un inutile e, quasi sempre, dannoso voyeurismo, il film di Boe si presenta come epigono di una (mal digerita) lezione di Dogma.


L'acutezza mediatica di Von Trier è stata quella di chiudere l'(ironica e beffarda) esperienza al volgere del tramonto di ogni spinta dissacratoria che l'aveva ispirata, ma dopo un fruttuoso periodo durante il quale l'originale iniziativa ha, quanto meno, suscitato un dibattito sullo stato del cinema.


Il tardivo giungere sulla scena di Boe con il suo cinema-verità, rischia soltanto di trasformarsi in un doloroso canto del cigno di un cinema finito e che non pare avere strada nel futuro.


Offscreen sembra appartenere, infatti, ad un cinema del passato, in cui la gratuità della storia, per i quattro quinti della sua durata e quella del suo finale truculento, per la restante parte, nulla aggiunge alla elaborazione che, dagli anni 70 ad oggi ha segnato le tappe del cinema-verità. Nessuna novità sperimentale quindi, se questo voleva essere, ma soltanto puro esercizio di stile. Né si vuole aderire alle note di stampa, dell'introvabile, catalogo della sezione, che segnalano che il fine del film è quello, in fondo, di negare ogni possibile terapeuticità del cinema che non riesce a guarire neppure Nicolas dopo la perdita definitiva di ogni sua identità e della propria stessa immagine. Gli insopportabili e gratuiti orrori del finale fanno perdere ogni ipotesi interpretativa e limitano qualsiasi indagine dello spettatore.


Nel suo precedente film Allegro Boe aveva dato prova di un cinema cupo e disorientato, ma chiuso (come la Zona del film), fine a se stesso e irrisolto, ma almeno costituiva una interessante ipotesi di ricostruzione della del personaggio senza memoria. Offscreen porta alle estreme conseguenze questa chiusura che diventa asfittica.


A proposito dei due migliori minuti, sono quelli in cui Lena, la ex ragazza di Nicolas, dopo una confessione fatta mentre lui dorme spegne la telecamera portandosela via. Ottima idea per il bene di Nicolas!

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