VENEZIA 63 – "I Don't Want To Sleep Alone", di Tsai Ming-Liang (Concorso)

Senza che i suoi protagonisti dicano mai una parola, Tsai Ming-Liang riesce a raccontare la storia di due corpi in cerca d'amore a Kuala Lampur: un giovane che giace in stato vegetativo in un appartamento, e uno straniero vagabondo

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Il corpo che giace: statico, vegetale, privo di volontà, lavato, massaggiato, toccato… Accudito in quel letto dal quale guarda senza sosta – manco a dirlo – il soffitto. E poi il corpo vagabondo: lunghi, improbabili capelli e baffetti alla cinese su un volto che non dice e non capisce una parola, perennemente in giro per le strade di Kuala Lampur, Malesia, lui che viene da Taipei e ovviamente si chiama Hsiao-Kang… Il corpo Lee Kang-Shen, insomma, interprete di entrambi i ruoli, body-double di se stesso in I Don't Want To Sleep Alone, il film che Tsai Ming-Liang ha portato in Concorso a Venezia 63, il suo primo girato in Malesia, sua terra d'origine, immancabilmente scoperta dal regista come set offerto alle pulsioni elementari (il contatto, il sesso) e ai sentimenti basilari (la cura reciproca, l'amore), in contrapposizione col solito, perenne buco nero che inghiotte i suoi personaggi: la solitudine.

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I Don't Want To Sleep Alone scaturisce da questi due corpi passivi, estranei ed estraniati dalla realtà, bisognosi di attenzioni: uno perché giace in stato vegetativo, soggetto alle cure di una giovane cameriera; l'altro perché, dopo esser stato picchiato a sangue da un gruppo di approfittatori, viene raccolto e assistito da un giovane immigrato del Bangladesh, che lo porta a casa con sé, gli offre il suo giaciglio e se ne innamora… E' come se tutto provenisse dal sogno disperato del ragazzo in coma, che dal suo letto, gli occhi aperti sulla solitudine in cui si trova, immagina un mondo in cui i corpi si muovono, si cercano, si toccano, si amano per una volontà che annulla l'isolamento e produce amore. E, allo stesso tempo, è come se Hsiao-Kang – il vagabondo che gira per Kuala Lumpur manco fosse uno Charlot senza bombetta e bastone, col suo silenzio, con la sua estraneità – fosse una sua promanazione, la proiezione di quel corpo immobile in un mondo sognato ed estraneo da cui ama essere desiderato. E infatti, perennemente in moto per la città, il vagabondo diviene l'oggetto del desiderio del giovane immigrato che l'ha salvato, ma anche della cameriera che accudisce il ragazzo in coma e della sua anziana ma ancora avvenente padrona…

Senza che i suoi protagonisti dicano mai una parola, Tsai Ming-Liang riesce a raccontare la storia di questi due corpi dispersi in un mondo sconosciuto, una città sospesa tra l'acqua e il fumo che d'improvviso invade le strade per una di quelle strane "catastrofi" imposte solitamente dal regista ai suoi set urbani, trasformati immancabilmente in scenari fantasmatici e cangianti. La città orizzontale (strade, marciapiedi, botteghe…), la città verticale (appartamenti, piani, palazzi…), la città ritrovata (Kuala Lampur)… Tsai Ming-Liang come sempre trattiene il respiro dei gesti, rallenta le azioni sino a far trasudare le emozioni da ogni inquadratura, lascia sublimare i set in una connotazione simbolica trascendente: l'enorme palazzo in costruzione bloccato in un eterno cantiere rivela lo scrigno acquatico di una grande e profonda pozza nera al centro della quale, alla fine, si ritrovano il vagabondo, la cameriera e l'immigrato: isole alla deriva, stretti in un unico abbraccio d'amore sul vecchio materasso che ha unito i loro sentimenti reciproci, ma dispersi nel cuore liquido di un ennesimo palazzo. Non più uno dei soliti condomini di Tsai Ming-Liang, bensì lo scheletro cantierizzato di un edificio scarnificato, senza pareti e piani, per metà sommerso, per metà aperto ai venti… Come se il cinema di questo regista volesse in qualche modo consegnarsi a un atto definitivo e sospingersi verso un altro pensare, magari una nuova fase.


Del resto, I Don't Want To Sleep Alone è un titolo che ha il suono perentorio di una dichiarazione d'intenti – tanto quanto, a suo tempo, Vive l'amour… E poi questa è la prima volta che un film di Tsai Ming-Liang si conclude in un abbraccio: non ci sembra fosse mai successo che questo autore consegnasse i suoi personaggi a un contatto che li tiene insieme… Senza disunirli…

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