"Tutti gli uomini del re", di Steven Zaillian

Se la sceneggiatura tiene, l'ambiguità costitutiva di tutti i personaggi affiora senza esplodere – fascinosi solo in potenza, i protagonisti sono costantemente tenuti a distanza. Ecco allora che una filosofia parlata sembra essere l'unico meccanismo che qua e là puntella il rapporto con lo spettatore.

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Remake dell'omonimo film del 1949 (diretto da Robert Rossen), Tutti gli uomini del re è tratto dal romanzo di Robert Penn Warren e la forza della struttura narrativa emerge da subito, palesemente, per poi tenere costantemente insieme il film, non lasciandone mai cadere il ritmo e la presa. In questo singolare intreccio di contenuti socio-politici e atmosfere noir, Zaillian conferma la vena da 'sceneggiatura di ferro' (Shindler's list, Mission: impossible, Gangs of New York, The interpreter), mettendo in scena una guerra tra classi cieca alla natura delle vittime che miete. Una luce polverosa, consumata, decadente come il contesto ultraborghese in cui si muovono i personaggi avvolge i pensieri e i movimenti, mentre la vicenda politica e quella intima si intrecciano tra i flashback e la voce narrante di Jack (Jude Law). Tutti gli uomini del re racconta il conflitto/attrazione tra opposti status, con Jack imbrigliato compulsivamente nel rapporto di lavoro con Willie Stark (Sean Penn), sempliciotto di profonda provincia portato alla ribalta del governo prima da un tentato raggiro, poi soltanto dalla propria forza di volontà. Jack è coinvolto profondamente, e in modo perverso, dall'operato di Stark: perché questo gli permette, subdolamente e con un certo masochismo, di scavare in un passato di dorati privilegi. Se la faccia di Sean Penn è perfetta per il personaggio, con Jude Law sembra di assistere ad un già-visto misto di ambiguità/tormento veicolato a suon di occhiaie e alcool. Se la sceneggiatura tiene, l'ambiguità costitutiva di tutti i personaggi affiora senza esplodere – fascinosi solo in potenza, i protagonisti sono costantemente tenuti a distanza, se si escludono le riprese quasi invasive dell'espressività e dei gesti di Sean Penn, efficacissimi nel comunicare l'anima del personaggio. Ecco allora che una filosofia parlata, fatta dei pensieri (necessariamente condivisibili) di Jack, sembra essere l'unico meccanismo che qua e là puntella il rapporto con lo spettatore, che probabilmente si affeziona più alla storia e al suo imprevedibile snodarsi, che a quelli che dovrebbero animarla. A tratti emerge un respiro ampio, da affresco d'epoca – i corpi dei personaggi che si stagliano sullo sfondo della Louisiana, campi e case isolate, fissità e ineluttabilità. Ma più spesso la macchina da presa, statica o scivolosa, sembra farsi semplicemente spettatrice degli eventi, fino ad un finale che riunisce e finisce nel sangue entrambe le fazioni (unite per nobiltà d'animo, per vanità, per truffa?) in modo forse un po' troppo ufficiale e cerimoniale, soprattutto troppo detto: l'America, la pistola in mano a chiunque, l'improvviso e immotivato bianco e nero, l'inquadratura dall'alto che riprende i titoli di testa, la parabola rise-and-fall-of-a-self-made-man…

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Titolo originale: All King's Men


Regia: Steven Zaillian


Interpreti: Sean Penn, Jude Law, Kate Winslet, Anthony Hopkins, Kathy Baker, Mark Ruffalo


Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia


Durata: 125'


Origine: Germania/USA, 2006

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