TORINO 24 – "Honor de cavalleria" di Albert Serra (Concorso)

Il film vincitore del Torino Film Festival è un variazione sul "Don Chisciotte" di Cervantes. Serra tenta di cogliere lo spirito intimo del romanzo e l'essenza dei due protagonisti con uno stile spoglio, lento e sognante, che si apre nel finale a un lirismo inaspettato e attuale

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Variazioni sul Don Chisciotte di Cervantes. Il folle hidalgo e il suo scudiero Sancho Panza vagano senza alcuna meta apparente in una campagna bruciata dal sole, aspra e selvaggia. Mentre il primo parla incessantemente, il secondo ascolta silenzioso, catatonico. Nessuna azione, nessuna mirabolante avventura, pochi gesti banali, un bagno nel fiume, un pranzo a noci e formaggio, qualche incontro lungo il cammino. L'esordiente Serra, studioso di filologia e letteratura spagnola, si confronta con il grande testo di Cervantes e, piuttosto che riproporlo banalmente nel suo sviluppo narrativo, cerca di coglierne lo spirito profondo. Senza alcuna scenografia, rifiuta la strada della mera ricostruzione in costume e si affida ad attori non professionisti, che parlano in dialetto catalano. Un aperto "tradimento", visto che il romanzo è ambientato ne La Mancha, il cuore della lingua castigliana. Eppure questa deviazione si traduce paradossalmente in una "fedeltà" al testo, non tanto alla sua lettera, quanto al suo significato intimo. Non si tratta di una rilettura attuale e personale come in Welles, ma di un tentativo di tradurre il romanzo con mezzi esclusivamente cinematografici, attraverso uno stile lento, sognante. Serra elimina tutto ciò che ritiene superfluo, anche il "plot", pur di carpire l'essenza dei due protagonisti, che si stagliano come figure smarrite, vaghi fantasmi in una natura predominante (ma ritratta senza alcun compiacimento), in un inferno di sole e calore. Le farneticazioni di Don Chisciotte sono l'indice di una follia, che trova il suo esatto opposto nell'ottusità silenziosa di Sancho. L'uno ha lo sguardo costantemente volto al cielo, l'altro è sempre rivolto a terra, in un contrasto tra idealismo "fuori moda" e umiltà "terrena" sin troppo evidente. Ma questo contrasto si annulla sul piano degli affetti. Don Chisciotte e Sancho sembrano padre e figlio, nonno e nipote, due facce della stessa medaglia, l'una delle quali non potrebbe vivere a prescindere dall'altra. A differenza di quanto accade in Straub e Huillet (al cui cinema Honor de cavalleria sembra in qualche modo guardare) le parole non hanno importanza fondamentale, contano più le atmosfere, quel senso di nostalgia per un mondo "cavalleresco" ormai scomparso, quella stanchezza che testimonia la fine del tempo dell'azione, il tramonto dell'epoca dell'avventura e dell'impresa. Solo nel finale, le parole sembrano riacquistare una valenza significativa, quando Don Chisciotte, constatata l'ineluttabilità della propria morte, afferma che la cavalleria è civiltà, opposta all'imperante barbarie del presente. E' proprio in quel momento che il film di Serra, nonostante la sua costruzione potenzialmente straniante, mostra il suo lirismo, la sua carica emotiva attualissima. E gli accordi di una chitarra sono l'ultimo, estremo canto a un mondo di "donne, cavallier, arme e amori".

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