NORDSUDOVESTEST – Libano, la guerra come segno immanente

La guerra, nel cinema libanese contemporaneo, non è tanto personaggio o protagonista, quanto una presenza, silenziosa o urlante, che abita le inquadrature, segno indelebile, figura in primo piano o sullo sfondo che osserva svolgersi le dinamiche dei fatti, spesso da essa generati.

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Missili e bombe su Beirut e il Libano del Sud. Nel Paese dei cedri è di nuovo, è ancora guerra. Che costringe all'esodo una moltitudine di persone scampate alla morte e colpisce le architetture, le strutture di una città dove il segno delle devastazioni non è mai stato del tutto cancellato, memoria visibile e quotidiana degli strati di un conflitto più che trentennale. Segni di Storia e di cronaca, di attualità che sono entrati a far parte naturalmente del cinema libanese, ovvero di una delle cinematografie mediorientali più densa di tradizioni, insieme a quella siriana. Una cinematografia che, dal 1974, convive con la guerra, la racconta e documenta – anche nei film di finzione più esibiti ma girati per quelle strade e tra quegli edifici sventrati, ridotti a scheletri – e da essa è penetrata, in quasi tutte le immagini.
La guerra, nel cinema libanese contemporaneo, non è tanto personaggio o protagonista, quanto una presenza, silenziosa o urlante, che abita le inquadrature, segno indelebile, figura in primo piano o sullo sfondo che osserva svolgersi le dinamiche dei fatti, spesso da essa generati. Ed è, la guerra, tra documentari e lavori di finzione, argomento ossessivo da filmare quasi "in diretta", un genere vero e proprio con il quale si sono confrontati e si confrontano i cineasti del rinnovamento, quegli autori che dagli anni Settanta scrivono, con stili e approcci diversi, pagine fondamentali per il nuovo cinema libanese: Mârûn Baghdadi (il cineasta libanese più conosciuto, morto nel 1993 in circostanze misteriose, autore di film fortemente politici, fin dal suo esordio Bayrut ya Bayrut, del 1975), Randa Sahhal-Sabbagh (Civilisées, 1998, ritratto di convivenza collettiva tra personaggi di varie nazionalità), Jocelyne Saab (Il était une fois Beyrouth, 1994, viaggio nella storia di Beirut e del cinema libanese; Dounia – Kiss me not on my eyes, 2005, girato in Egitto, storia di una giovane donna divisa fra il piacere della danza orientale e le repressioni culturali e religiose del mondo arabo d'oggi), Jean Kalîl Shamun (documentarista di grande militanza), Ghassan Salhab (autore del concettuale Beyrouth fantôme, 1998), Ziad Doueiri (dallo sguardo americano in West Beyrouth, 1998, e francese in Lila dit ça, 2004)…

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L'immagine-Beirut si fa dunque segno immediatamente riconoscibile di molte opere che illuminano un luogo lacerato dalle bombe e reinventato come set di pura finzione per compiere viaggi in una città distrutta, nel tempo e nella memoria, nella guerra e nel dopo-guerra. Le cineaste e i cineasti libanesi filmano Beirut o altre zone del Libano con punti di vista molto personali, dove reportage e materiali d'archivio confluiscono nella finzione, in film che parlano spesso del ritorno a casa (pre-testo molto usato, reso visivamente con soggettive da automobili dei protagonisti che rientrano in Libano, che ri-percorrono quelle strade, come capita nelle aperture di diversi film), di conflitti intimi e politici.
Cinema di resistenza, di militanza, appassionato e politico, dalla cospicua filmografia, che anche recentemente si è arricchita di titoli preziosi (e, ancora una volta, del tutto assenti dalla distribuzione italiana…, salvo West Beyrouth di Ziad Doueiri). Con Maarek Hob (Nei campi di battaglia, 2004) ha fatto il suo esordio nel lungometraggio (dopo sei cortometraggi, tra finzione e documentari) Danielle Arbid. Ambientato nella Beirut del 1983, è un film che descrive, nella quotidianità instabile determinata dalla guerra, le relazioni d'amicizia e sentimentali di due ragazze, la dodicenne Lina e la diciottenne Siham, e i loro ambienti familiari. Film dai tocchi leggeri, e dunque profondi, fatto di sensualità e sfumature, morbidezze nel seguire con complicità le avventure delle due giovani protagoniste e dei personaggi che ruotano attorno a loro, e le tensioni, gelosie, incomprensioni che si creano. Maarek Hob è un'opera prima di rara sensibilità che ha rivelato una regista di talento.

Lavorano in coppia da diverso tempo – come docenti di sceneggiatura e videoarte e come registi – Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, immergendosi nella memoria del loro Paese con il documentario e con la finzione. Significativi, nel primo caso, e con uno sguardo politico che si contamina con la videoarte, Khiam (2000), ovvero la prigione del Sud del Libano che sfuggiva al controllo internazionale, gestita dalle milizie cristiane sostenute da Israele, e El film el mafkoud (Il film perduto, 2003), video-diario nel viaggio soggettivo degli autori alla ricerca delle bobine di un loro film che non si trovano più. Nel secondo caso, e partendo ancora da una vicenda personale, il lungometraggio A perfect day (2005), ambientato nella Beirut dei giorni nostri, dove vivono, o meglio trascorrono le loro giornate senza l'intenzione o la forza di reagire, il venticinquenne Malek e la madre Claudia, personaggi annientati dalla scomparsa (nel senso di sparizione, forse di morte…) del padre/del marito durante la guerra del Libano, quindici anni prima.
La guerra ri-appare evocata anche negli spazi di un film di tutt'altro genere, Bosta (Autobus, 2005), commedia popolare, molto colorata e con numeri musicali, diretta da Philippe Aractingi. Un antico autobus viene rimesso a nuovo per una tournée musicale attraverso il Libano, voluta dal figlio di un celebre maestro di danza (che fu ucciso da una bomba, e la sua scuola saltò in aria) che raduna alcuni ex ballerini per dare nuova vita a una danza tradizionale. Film sospeso tra presente e passato, tra memoria e sensi di colpa, con cenni al Libano della guerra e desiderio, necessità di lottare. A bordo di un autobus simbolo di memoria che, corpo fuori dal tempo, si rimette in cammino in un viaggio individuale e collettivo di r/esistenza.

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