CANNES 60 -"Import Export", di Ulrich Seidl (Concorso)

Dopo "Canicola" del 2001 il regista austriaco realizza una pellicola in cui è ancora presente il gusto per la provocazione eccessiva e del volontario sadismo. Sono il suo sguardo e la sua volontà che muovono e manipolano tutto. Si è quindi completamente nelle sue mani. E spesso ci si vorrebbe liberare il prima possibile

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Tra l'Ucraina e l'Austria. A 6 anni di distanza da Canicola, l'austriaco Ulrich Seidl ritorna dietro la macchina da presa con Import Export. Titolo che già preannuncia la doppia direzione di 'entrata' e 'uscita', andata e ritorno. Due esistenze, due destini s'incrociano. Da una parte c'è Olga (Ekateryna Rak), giovane infermiera ucraina che si trasferisce in Austria in cerca di una condizione di vita migliore. Dopo esser stata licenziata come baby-sitter, trova lavoro presso un'impresa di pulizie. Dall'altra parte c'è invece Paul (Paul Hoffmann) impiegato come agente di sicurezza. Dopo esser stato licenziato, prende con il patrigno la strada verso Est in direzione dell'Ucraina. Come nell'opera precedente, Seidl costruisce un cinema che non concede sconti, che si tiene volontariamente separato dai personaggi per poter procedere quasi ad uno studio sociologico sull'essere umano. Da questo punto di vista Import Export rasenta anche la struttura documentaristica evidente soprattutto nelle scene dell'ospedale in Austria, dove i degenti guardano anche nella macchina da presa che cattura 'indiscretamente' la loro sofferenza e malattia. Ecco, l'impressione che da Seidl è proprio quella di un cinema composto da sguardi rubati e/o situazioni esasperate. Infatti la pellicola si compone frequentemente di inquadrature lunghe, con la macchina da presa fissa, dove ogni azione viene 'iniziata' e 'conclusa' all'interno del singolo quadro: la scena della ragazza di Paul che ha paura del cane, la camminata di Olga sulle strade innevate in Ucraina, il dialogo tra il patrigno e il figlio in una stanza d'albergo dove è presente anche una prostituta. Si tratta di frammenti quasi singoli, con o senza soluzione di continuità, come se ogni singolo episodio potesse anche costituire la materia narrativa per singoli corti sempre interpretati dagli stessi attori. Come nel film precedente, c'è in Import Export il gusto di una provocazione eccessiva, di un volontario sadismo, dove il cinema di Seidl si compiace delle 'fredde distanze' che ci stanno tra la macchina da presa e i protagonisti. Si potrebbe parlare forse di un lavoro sull'attore che coinvolge il corpo e la mente. In realtà, forse in misura leggermente minore di Canicola, emerge sempre il sospetto che la sua opera sia essenzialmente il risultato di un freddo esperimento scientifico, anzi quasi chimico, sulla materia (personaggi, ambienti, oggetti). Sono il suo sguardo e la sua volontà che muovono e manipolano tutto. Si è quindi completamente nelle sue mani. E spesso ci si vorrebbe liberare il prima possibile.

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