CANNES 60 – "Mio fratello è figlio unico", di Daniele Luchetti (UN certain regard)

Luchetti realizza un'operazione furba per la scelta del cast e per il bozzettismo con cui delinea i suoi personaggi ma allo stesso tempo sembra essere sincero per quanto riguarda la sua narrazione. Purtoppo però non ci allontaniamo dai soliti stereotipi sul '68 e alla fine, come sempre, sembra prevalere il livello di base di commedia

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La storia di due fratelli che attraversano un periodo cruciale per l'Italia come quello che va dall'inizio degli anni sessanta fino alla nascita delle BR poteva e doveva essere molto di più. A distanza di ormai quasi trent'anni quel periodo andrebbe finalmente riletto in un'ottica matura che ne faccia riemergere i paradossi ma anche l'autenticità e le molteplici correnti politiche, sia di destra che di sinistra.

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Luchetti, per sua stessa ammissione, non ha voluto fare un film politico ma un film in cui ci sono esseri umani che parlano di politica. E in questo senza dubbio ha colto l'obiettivo. Ha realizzato infatti un film scorrevole e divertente, puntando tutto sulla spontaneità dei suoi attori principali e su un cast di contorno di attori navigati. Le scelte tecniche e stilistiche fatte dal regista sembrerebbero consolidare la sua posizione. Uso della macchina a mano, pedinamento dei personaggi, l'azione e le dinamiche emotive che hanno il sopravvento su immagini a volte fuori fuoco e riprese traballanti. Luchetti vuole dare freschezza ed impatto alla sua pellicola. Ci riesce, ma tutto finisce qui.


I personaggi non sono altro che macchiette, stereotipi di un'intera generazione che non merita di essere rappresentata in questo modo. E' palese che la storia vuole a tutti i costi toccare i momenti più importanti di quel periodo ma lo fa senza tener conto dell'autenticità dei suoi protagonisti che non vengono supportati da una psicologia adeguata che ne spieghi realmente scelte e obiettivi. Un elemento stilistico usato da Luchetti mette poi parecchi dubbi sul vero fine della sua operazione: l'uso smodato del primo piano. Ci si interroga su questa scelta. Se sia l'esaltazione dell'individuo al di là del contesto sociale nel quale si muove o se sia un mezzo per far risaltare il fascino dei divi del momento. E' paradossale che Scamarcio sia l'unico a non invecchiare di un solo secondo per tutta la durata del film che, come si è detto, abbraccia un arco di tempo di oltre dieci anni.


Luchetti realizza un'operazione furba per la scelta del cast (quasi tutta gente che ormai lavora solo in televisione e nella fiction) e per il bozzettismo con cui delinea i suoi personaggi (la rappresentazione, per esempio, dell'Italia fascista dell'epoca è da avanspettacolo) ma allo stesso tempo sembra essere sincero per quanto riguarda la sua narrazione.


Purtroppo di questi due fratelli, oltre alle botte o agli scherzi che si fanno, non rimane nulla. Se non l'illusione di un periodo che in nessun modo potrà essere così  semplice da raccontare.


E soprattutto capire.

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