CATTIVE LETTURE – Raymond Carver


A trent’anni esatti dall’uscita della raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d'amore possiamo finalmente leggere la versione integrale voluta e difesa da Raymond Carver. Occasione giusta per avanzare una riflessione su quella miracolosa capacità di costruire immagini solo attraverso pure azioni

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Principianti, di Raymond Carver

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   «Carver non era un minimalista: era un artista!» — David Foster Wallace

 

   «Ho scritto come se ne andasse della mia vita e come se non ci fosse domani. E sappiamo entrambi che la prima cosa è vera e la seconda è una possibilità sempre aperta.» — Raymond Carver in una lettera a Gordon Lish

 

“Una cosa piccola ma buona”: i racconti di Raymond Carver. Sineddoche ideale che prende a prestito il titolo di uno dei suoi scritti più famosi per estenderlo a tutti gli altri, come se si dovesse sempre e solo rimanere doverosamente ancorati alle sue parole. Sì perché a più di vent’anni dalla  prematura scomparsa, si ha oggi la forte impressione che Raymond avesse già detto veramente tutto, di se stesso e di noi altri: tutti insieme fotografati sulle pagine delle sue brevi storie, immortalati con il cuore in subbuglio e le facce perplesse da fragili principianti della vita.“Principianti” appunto: questo era il titolo originario di una delle prime raccolte dello scrittore americano, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, forse quella che lo ha consacrato definitivamente come grande maestro del romanzo in forma breve. Ma, come ormai ampiamente risaputo, quell’opera fu pesantemente rimaneggiata dal suo editor e buon amico Gordon Lish che scarnificando sino all’essenziale i testi carveriani accentuò fino all’estremo uno stile che sarebbe divenuto famoso col nome di minimalismo letterario. E allora la pubblicazione postuma dell’opera originale, a trent’anni esatti dall’uscita della prima edizione, si presenta veramente come un dono fatto al lettore appassionato. Questo perché il dogma integralista del minimalismo lishiano (quasi il quaranta per cento del libro fu falciato nel 1981) calamitava innegabilmente ogni attenzione su una sublime tecnica di scrittura, facendo passare un po’ troppo in secondo piano le emozioni e i turbamenti che si agitavano nel sottosuolo di quelle inesorabili pagine. Insomma, si è sempre parlato di più del Carver minimalista che del Carver umanista. E probabilmente non era questo il suo scopo, o almeno è questo che si evince leggendo le sue “resuscitate” parole (nonché le struggenti lettere indirizzate all’amico/editor contenute nel libro), che riescono a sposare magicamente le proverbiali locuzioni secche e coincise con il mondo emotivo nascosto e represso di personaggi mai così veri. Una emotività che qui finalmente trabocca come un fiume in piena, non più arginato dalla diga intellettuale di Gordon Lish.

 

I personaggi di Carver, del resto, sono sempre stati come fragili arbusti sballottolati dal vento del loro mondo interiore: eppure lo scrittore non si è mai avventurato nei meandri della loro psiche, limitandosi solo a “mostrare” singole azioni scaturite da “emozioni”. Azioni compiute come piccoli cristalli di significanza che schiudono interi mondi nella mente del lettore: la parola viene concepita come un perenne campo di sentimenti sempre in divenire e mai già divenuti (come nel teatro di Cechov), arrendendosi a priori alla pretesa di “spiegare” e aprendosi invece all’immenso potenziale nascosto dietro ad una singola scelta, ad un pensiero futile, ad un unico accadimento isolato (eredità del maestro Hemingway). Carver diviene pertanto il poeta americano del momento – per certi versi il Robert Frank della letteratura, leggendario fotografo beat cheExcursion into Philosophy, di Edward Hopper cattura la vera “americanità” in fugaci scatti e senza nemmeno porre l’occhio nel mirino – isolando una manciata di attimi decisivi, dilatandoli e rivelandoci tutta la loro complessa e stratificata banalità. Un Carver mostratore più che scrittore quindi. E, guarda caso, siamo anche noi scivolati (in)volontariamente nell’universo delle immagini: fotografia, pittura e cinema. Proprio le correnti pittoriche novecentesche americane, che da un artista immenso come Edward Hopper porteranno alla pop art di Warhol e agli iperrealisti negli anni ’70, rappresentano il successivo passo da compiere per accostare Carver al mondo dell’immagine. I suoi racconti – come una tela di Hopper – da un lato bloccano il “reale” in un momento (senza nessuna connotazione spazio/temporale), sviscerandone tutto il potenziale significante esteso all’intera natura umana; ma da un altro lato riescono costantemente a dialogare con un Fuori (racconto/quadro) che è sempre presente, facendone avvertire l’imponderabile influenza. C’è sempre l’uomo in primo piano insomma, ma dietro di esso si agitano forze oscure che vengono evocate solo con una pennellata. O con una parola:

 

la rapidità con cui lei s’era precipitata nella morte, e anche oltre, l’aveva spinta a dubitare di se stessa: forse non aveva amato abbastanza, altrimenti non sarebbe stata così pronta a pensare al peggio. Aveva scrollato la testa per scacciare quel pensiero folle. (da “Una cosa piccola ma buona”, in Principianti)

 

La costante tensione iperrealista verso il dettaglio diventa paradossalmente l’unico modo per arrivare al “tutto”. Una consapevolezza che ci fa arrivare all’ultima delle nostre brevi tappe, quella a noi più cara e vicina: il confronto con il cinema. Esattamente come una macchina da presa, infatti, la penna di Carver si insinua negli spazi e inquadra con apparente oggettività solo ciò che serve per costruire un campo; poi, operando come un abile montatore, associa queste stesse descrizioni alle azioni dei suoi protagonisti immersi in Mondi che miracolosamente ci risultano già familiari. L'umanità la si scopre  nei luoghi meno avventurosi o meno tipicamente affascinanti: vecchi Motel scrostati, case a schiera di periferia o anonimi bar di un aeroporto; dove i problemi diventano la disoccupazione, un matrimonio fallito o l’alcolismo che incombe sempre dietro l’angolo. Fotografia tratta da The Americans, di Robert FrankUn’umanità che va scovata tra le pieghe delle descrizioni/immagini proprio come in tanta tradizione cinematografica americana che da Nicholas Ray o Elia Kazan porta dritta a John Cassavetes o Robert Altman. Prendiamo l’inizio del racconto La vuoi vedere una cosa?, emblematico al massimo in tal senso: periodi brevissimi, descrittivi, intervallati costantemente da punti che sono come stacchi di montaggio, sino alla frase rivelatoria “e anche i minimi dettagli balzavano alla mia attenzione”. Da lì parte una vera e propria panoramica sul giardino di casa della protagonista che finisce sul suo letto dove giace insonne. Ma non ci viene descritto semplicemente un luogo, bensì quello che la protagonista “vede”: la parzialità del suo sguardo è restituita come l’unica fonte diegetica possibile e il narratore si occulta nei suoi occhi. Carver non potrebbe che essere uno scrittore di racconti insomma: la sua scrittura è concepibile unicamente come breve, improponibile su altra scala proprio perché ciò che volutamente e ostinatamente inquadra è un pezzo di storia. Visioni parziali, scorci di quella Vita che non verrà mai rincorsa in lunghissime digressioni (tipiche dei grandi “massimalisti” Pynchon, De Lillo e Foster Wallace), ma avvertita solo in echi lontani. Come fossimo al Cinema appunto. Ecco che, nel bel mezzo di una descrizione sulla difficile condizione di un suo vicino di casa, all’improvviso la protagonista esce dal racconto solo per pochi secondi:

 

È passato un aereo. Ho alzato gli occhi e ne ho visto le lucette intermittenti e dietro, nettissima nel cielo notturno, la lunga stria bianca dei gas di scarico. Mi sono immaginata i passeggeri con le cinture di sicurezza allacciate, qualcuno che legge, qualcun altro che guarda fuori dal finestrino. Mi sono rigirata verso Sam. Ho detto:  E come stanno Laurie e Sam Junior?  (da “La vuoi vedere una cosa?” In Principianti)

 

Sembra veramente un piano sequenza degno delle sublimi derive visive di Jean Renoir o – tanto per rimanere in America – del Cassavetes di Una Moglie. Film dove la macchina da presa coglie i minimi moti dell’animo degli straordinari Peter Falk e Geena Rowlans, relativizzando la storia narrata e aprendosi al Tutto che li ingloba. Ecco, questa facoltà così costitutiva del cinema di evocare senza dire viene tentata costantemente da Carver in una forma letteraria ambiziosissima eppure confinata in una apparente orizzontalità. E non a caso tanti giovani registi contemporanei scontano direttamente o indirettamente una filiazione con l’immaginario carveriano: l’iperrealismo minimalista di Todd Solondz; gli alberghi decentrati di Sofia Coppola; le piccole saghe familiari di Noah Baumach e Tamara Jenkins; i meravigliosi ubriachi d'amore di P. T. Anderson e persino gli abissali viaggi nel dolore di Vincent Gallo. Per pura associazione di idee potremmo arrivare addirittura al cinema di Abbas Kiarostami: forse il regista più carveriano di tutti, che paradossalmente opera dall’altra parteUna Moglie, di John Cassavetes del mondo. Entrambi gli artisti infatti – dall’America all’Iran senza nessun confine ideologico o culturale – si inoltrano costantemente in quello spazio della vita posto tra il personaggio descritto e il lettore/spettatore, generando così un perenne cortocircuito di percezioni: un racconto (con)fuso con l’umano. Le persone di Carver divengono pertanto improvvisamente trasparenti: come se nel flusso costante di una esistenza passata a portare pesanti maschere (il famoso crollo del Sogno Americano) ci fosse puntualmente un momento di pura sincerità svelato solo dalla luce della sua penna. La forza della scrittura di Carver risiede proprio in questa facoltà di evocare immagini che sottendono un sentimento, tanto da sentirsi costantemente spiati nell’anima quando si leggono racconti come Perché non ballate? (di fresca trasposizione cinematografica) o Gazebo. Racconti dove questa fluida e ininterrotta dinamica azione/sentimento/azione (in moto perpetuo) appare così collaudata da risultare quasi invisibile:

 

Duane? – fa lei

Holly? – Stringo le dita attorno al bicchiere. Il cuore rallenta. Aspetto. Holly è stata il mio vero amore. La storia con Juanita è andata avanti cinque giorni a settimana tra le dieci e le undici di mattina per sei settimane. (da “Gazebo”, in Principianti)

 

Con una manciata di frasi e qualche punto/stacco, Carver è riuscito a immaginare una situazione (due coniugi che nervosamente gesticolano), un sentimento che li lega (l’amore ancora vivo) e un antefatto che li allontana (il tradimento perpetrato). Azione-sentimento-azione che racconta solo di noi. Come non sentirsi vivere dentro queste parole? Come non avvertire una strana vertigine familiare leggendo queste nitide immagini? Insomma, come non considerare Raymond Carver “il più grande cineasta mai capitato dietro ad una macchina da scrivere”?

 

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