VENEZIA 64 – "Sztuczki" di Andrzej Jakimowski (Giornate degli autori

Una scena di TricksOpera seconda presentata in prima mondiale nella sezione Giornate degli autori, ricorda in parte quello di Lukas Moodysson (Lilja 4-ever) anche soltanto per un particolare candore, serio, privo di ingenuità, che i suoi abitanti mantengono nell’impatto con la sostanza della perdita, nella capacità di assimilarla senza perdersi del tutto, ma specialmente nello sguardo della coppia Stefek ed Elka, fratelli di sei e diciassette anni, complici legati da un affetto profondo
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Una scena di TricksIl frammento di mondo su cui si concentra Jakimowski in Sztuczki (Trucchi), opera seconda presentata in prima mondiale nella sezione Giornate degli autori, ricorda in parte quello di Lukas Moodysson (Lilja 4-ever, ma non solo) anche soltanto per un particolare candore, serio, privo di ingenuità, che i suoi abitanti mantengono nell’impatto con la sostanza della perdita, nella capacità di assimilarla senza perdersi del tutto, ma specialmente nello sguardo che posano sulle cose. Anche se meno disperati di quelli di una Lilja, gli occhi della coppia Stefek ed Elka, fratelli di sei e diciassette anni, complici legati da un affetto profondo e appassionati creatori degli stratagemmi del titolo, sono di una trasparenza grave, capaci di ridere con innocenza, imbevuti di quella consapevolezza che si acquisisce dal contatto non mediato con gli eventi, e costantemente fissi, per tutta la durata del film, su una realtà attraversata da quella che chiamano fortuna o sorte. Sulla quale volontariamente, per una sorta di onestà da giocatori corretti, si rifiutano di intervenire direttamente, limitandosi a giocarci con il piacere e l’emozione di due scommettitori alle corse dei cavalli, e indirizzandola in base alle loro speranze grazie a quelli che chiamano Trucchi  (realtà che assomiglia effettivamente assai più a un grande tessuto di giochi di prestigio congegnati non tanto da una divinità onnipotente, ma da un paesaggio mentale e naturale in vena di scherzi che si autogenera spontaneamente e che si nutre dei suoi stessi imprevisti). A mia sorella, che mi permetteva di sedermi in cima all’armadio, la dedica che apre il film, permette subito di accettare agevolmente la rappresentazione di una visione infantile rovesciata e magica, il gioco del rovesciamento paradossale delle prospettive, anche spaziali, possibile probabilmente solo nell’infanzia – che si illumina di buffi convincimenti e rituali bizzarri eppure riesce ad accettare i nudi fatti, come l’abbandono di un padre, in maniera perfino più cinica della riflessione adulta; ma meno rassegnata. Jakimowski non indugia nemmeno un minuto di troppo e aggira il facile rischio di fornire una raffigurazione troppo insistita di certo folklore locale, lasciando alla comunità polacca le sue piccole stranezze e i suoi dettagli quotidiani, senza però utilizzarli in funzione riempitiva, lasciando che siano parte del paesaggio, come sembrano esserlo i corsi d’acqua, i piccioni e gli esseri umani, la provocante vicina di casa gonfiabile e l’antro misterioso del macchinista, che Stefek osserva alla stazione dei treni come se in un certo senso il funzionamento potesse svelargli un segreto sulla meccanica di eventi più importanti della puntualità di un treno. Che si tratti di credere nella capacità di un paio di soldatini di plastica di custodire la porta di un bar e impedire la fuga di un padre di cui si è dovuto sempre fare a meno, oppure di approfittare del proprio lavoro di lavapiatti per imparare l’italiano simulando una conversazione tra due padelle, o di innescare come in una sfida con i protagonisti di un gioco di ruolo il meccanismo che porterà i passanti ad accorgersi del venditore di mele più sfortunato e ignorato, o un barbone a trovare del cibo tra i rifiuti, i due fratelli non perdono occasione per giocare seriamente proprio quando sono di fronte alle difficoltà, circondati da una madre dolce e un po’ triste e da un fidanzato impegnato in riflessioni sulla virilità di un’automobile piuttosto che un’altra e in una semplice tenerezza protettiva che unisce la ragazza e il fratellino come l’entità proporzionata e bella che essi sono insieme). Stefek cerca di riprodurre il rituale – berretto, sigaretta e schiocco delle dita – che il vecchio custode dei piccioni utilizza allo scopo di farli volare nel cielo: il volo dei piccioni nella natura calda e sonnolenta di una zona periferica presso Varsavia, che sembra quasi colta in presa diretta nei suoi suoni, viene stranamente osservato da tutti e sembra mettere in moto gli eventi: si alza spesso gli occhi al cielo, nessuno sembra estraneo al terreno che calpesta, qualunque sia il suo ruolo nella vicenda, sensazione che acuisce e conferma la dimensione di un grande gioco di energie che si dà naturalmente nuove regole e le infrange puntualmente, senza preoccuparsi di coerenza o ordine, né di un rigido equilibrio, o di perfezione; ma è proprio un senso di armonia e di calore quello che resta dopo la visione, che senza lo sforzo di riprodurre l’esistenza, ne offre un ritratto dalla consistenza luminosa.
 
 
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