VENEZIA 64 – "Disengagement", di Amos Gitai (Fuori Concorso)

DISENGAGEMENTI carrelli di Gitai continuano a essere luidissima coscienza dello spazio. Coscienza innanzitutto che lo spazio è in sé apocrifo, non ha padroni (anzi semmai è lui il padrone) e dunque non può che essere eternamente teatro di un conflitto che trova ancora nello spazio la propria inderogabile estensione
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DISENGAGEMENTPochi soggetti sono mai parsi più “Gitaiani” dello sgombero dei coloni da Gaza di qualche tempo fa. Lo spazio, il confine, l’ineluttabilità metafisica e concretissima del conflitto… Questo Disengagement, allora, è da parte del regista israeliano un atto tanto inevitabile quanto, a posteriori, spiazzante.

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Perché prima della lunga e straordinaria seconda parte ambientata nella terra da sgomberare, tutta la prima parte è un’enigmatica rincorsa delle inquietudini di Ana (Juliette Binoche), figlia francese di uno stimato professore ebreo impegnatissimo politicamente appena morto. Ana va a Gaza (accompagnata dal fratellastro militare Uli, anche lui in Francia per il decesso) appunto a trovare la figlia, destinataria dell’eredità del defunto padre. Girata tutta o quasi in interni, questa prima parte misura a suon di pianisequenza lo sfaldarsi di uno spazio che da ultrafisico (i noti, orizzontali carrelli “architettonici” di Gitai) diventa mentale, si fa invadere da una Binoche alle soglie del delirio, “viandante tra le parole” (come la apostroferà più avanti nel film un arabo riottoso) alle prese con le rovine del senso.

Indispensabile, questo cupissimo primo segmento della pellicola, per illuminare a dovere la caotica sezione ambientata a Gaza, dove i carrelli di Gitai continuano a essere lucidissima coscienza dello spazio. Coscienza innanzitutto che lo spazio è “in sé” apocrifo, non ha padroni (anzi semmai è lui il padrone) e dunque non può che essere eternamente teatro di un conflitto che trova ancora nello spazio la propria inderogabile estensione. Lo spazio si sfalda e gemma sempre nuovi conflitti: per questo il legame di sangue caparbiamente ricercato da Ana (la figlia) è costretto ad essere lacerato subito dopo essere stato trovato – lacerato nuovamente attraverso lo spazio, attraverso la maledizione irrimediabile della distanza. I movimenti di macchina di Gitai, durissimi, imperterriti e labirintici, incarnano insomma la coscienza dell’inevitabilità fatale della dissonanza. Davvero è la dissonanza (anche a livello di costruzione) la chiave di “Disengagement”, il nucleo di una poetica disperata (che però fa abbracciare nel finale i due fratellastri, in un refolo tenue di speranza, proprio perché non c’è nessuna appartenenza che li lega). Non è un caso se la musica è del figlio di Karlheinz Stockhausen, uno dei massimi alchimisti della dissonanza.

Prezioso lamento sullo spazio come ineluttabile maledizione della dissonanza, “Disengagement” si lascia riassumere da quell’istante indimenticabile in cui Ana e la cantante negra si guardano, immobili, mentre lei canta “Ewig… ewig…”. Eternamente… eternamente…
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