VENEZIA 64 – "Help Me Eros", di Lee Kang Sheng (Concorso)

Protagonista di se stesso, l’attore abituale dei film di Tsai Ming-liang abita in questa sua opera seconda da regista un fallimento esistenziale che si traduce nella solitudine un corpo che si trascina in ansia tra incontri d’amore e piante da amare. Desertificati nei neon e nelle vitree trasparenze di strade, palazzi, appartamenti, gli scenari urbani/umani di Lee Kang Sheng si affidano a un’astrazione dolce e disperata
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Amor di distrazione, eros e geometrie della solitudine: con Help Me Eros Lee Kang Sheng sembra portare in Concorso il fantasma del suo mentore (nonché produttore esecutivo) Tsai Ming-liang, ma occhio, che anche questa volta (forse più che nell’opera prima “The Missing/Bu Jiang”) l’operazione non è banalmente mimetica rispetto al cinema del maestro dei cui film è corpo iconico. Desertificati nei neon e nelle vitree trasparenze di strade, palazzi, appartamenti, gli scenari urbani/umani di Lee Kang Sheng si affidano a un’astrazione dolce e disperata che non concede spazio ai dispositivi magnificamente trasparenti di Tsai Min-liang: il suo è un cinema più fisico, si affida a corpi che non dimenticano mai il loro tempo presente, la loro funzione immediatamente vitale. Protagonista di se stesso, Lee Kang Sheng abita in Help Me Eros un fallimento esistenziale che si traduce in solitudine: una casa grande e lussuosamente moderna che si svuota progressivamente di mobili e oggetti finiti al monte di pietà per pagare le bollette, un corpo che si trascina in ansia da fallimento bancario ed esistenziale, un isolamento che si spinge per le strade notturne e si ferma davanti ai box delle bellezze che, adeguatamente svestite e disponibili, vendono “betel nuts” ai passanti. Una di queste diviene la sua compagna di una e poi di altre notti, tra fumo, sesso, rare chiacchiere, scorribande in macchina sbeffeggiando il flash dell’autovelox…: due solitudini ben presto accompagnate da altre solitudini che si uniscono in soluzioni erotiche variopinte, ma non propriamente gioiose.
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E poi il raffronto con le due ragazze del “telefono amico” al quale il protagonista si rivolge, in preda agli attacchi di panico: una iù austera e solitaria, seguita e osservata da lontano; l’altra, più grassa e frustrata, magari anche disponibile, perché trascurata dal marito, cuoco e gay, e pronta a trovare consolazione nelle anguille che giacciono nella vasca da bagno… Lee Kang Sheng dispone gli elementi sulla definizione di una scena che trasuda isolamento, cerca il silenzio dei gesti, lo schianto delle emozioni nella passività dello scenario artificialmente lussureggiante della casa e in quello desolatamente notturno della città. Le sue sono figure “vegetali” (come le piante alle quali il protagonista offre il proprio respiro) offerte allo scenario come viventi in cerca di attenzione, ma incapaci di esprimersi al di là della loro mera presenza. Tutto riecheggia di deprivazioni progressive, di svuotamenti (di energia, passioni, sentimenti, oggetti), in un’elegia dell’annullamento che non conosce poesia, ma solo il lirismo sottratto della solitudine. Le immagini rilucono freddamente nei neon, si osservano nelle reciproche trasparenze, si affidano ai cromatismi urbani, cercano i corpi per trovarli negli intrecci di atti (sessuali) e silenzi (esistenziali).
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