"Viaggio in India", di Mohsen Makhmalbaf

Makhmalbaf va cercando di eguagliare il canto della mosca intrappolata nell’abitacolo del taxi, come fa il conducente in una bella sequenza, ma i suoi personaggi non possono fare a meno di scoppiare a ridere incontenibilmente davanti al tentativo – come effettivamente accade nella scena: straniamento e distanza nei confronti della ‘materia indiana’. Presentato Fuori Concorso al 24° Festival di Torino

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“E’ da 15 anni che sogno di fare un film in India. Penso che sia un luogo perfetto per realizzarci un film, a condizione di poterlo girare interamente in una stanza soltanto.” Dunque Makhmalbaf corona finalmente questo suo sogno ‘indiano’, con un film, questo Viaggio in India, che sin dal titolo pone la questione delle distanze, delle misure: come può camminare la donna protagonista sul suolo indiano senza causare la morte delle formiche, anch’esse creature di dio? Distanza dalla materia, allora, per non ucciderla: sguardo ‘da turisti’ (“i turisti in India sono tutti stupidi”), dove quando è lei (la ‘credente’) a manovrare l’immancabile videocamera con cui riprendere il viaggio di nozze in India, lo sguardo cerca la bellezza (dettagli di ceste di fiori), quando invece l’operatore è l’uomo (il ‘comunista’), allora si ricerca la verità (barboni che dormono per strada, bambine che chiedono l’elemosina…). C’è anche l’agognata ‘scena nella stanza’, oscurità candele veli nudità e incomprensioni, e c’è soprattutto una sequenza iniziale dove lei non vede e lui non ascolta, lungo i binari di un treno in mezzo all’India che non passa mai, e quando passa viene bloccato con lo sguardo da un vecchio santone seduto tra le rotaie che si limita ad alzare le braccia in segno di resistenza. “E’ il conducente che frena in tempo, non sono io che fermo il treno con lo sguardo. Volevo suicidarmi, ma non ci riesco. Sono costretto a stare qui seduto tra i binari invece di tornare a casa dalla mia famiglia perché ogni volta che il treno si inchioda frotte di mendicanti si fanno dare cibo dai finestrini dai passeggeri. Sono intrappolato in questa situazione.” Allora, quello che sembra non è quello che è – come forse d’altronde tutto il cinema di Makhmalbaf, che probabilmente cercava un apologo sulla situazione dell’India, per sempre inquadrata nei suoi clichè di luogo new age, dove tutto è dio, filosofia e spiritualità, e invece viene fuori questo ‘militante’ viaggio in India alla ricerca dell’Uomo Perfetto, l’Uomo Completo, essere miracoloso che è forse una delle tre milioni di divinità a cui credono gli indiani, e lungo il cammino non si fa altro che cianciare di dio, filosofia, spiritualità, con l’aggiunta però di politica, rivoluzione e povertà. Ecco che si torna a parlare di distanze, e il ritardo crescente del rullo dei sottotitoli in italiano sui dialoghi in inglese/indiano/iraniano durante la proiezione delle 13:45 è paradossalmente sottolineatura perfetta dello straniamento nei confronti della materia ripresa operato dal film: come se Makhmalbaf vada cercando di eguagliare il canto della mosca intrappolata nell’abitacolo del taxi, come fa il conducente in quella bella sequenza, ma i suoi personaggi non possano fare a meno di scoppiare a ridere incontenibilmente davanti al tentativo – come effettivamente accade nella scena: tornando al quarto d’ora iniziale, è la cornice per un’ombra che i ragazzini dispettosi costruiscono per terra con i massi per racchiudere la silhouette proiettata dal sole dei due protagonisti che aspettano il treno seduti con la sedia sui binari: inquadrare l’ombra per continuare a vederla – che alla fine è proprio come ucciderla.

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Titolo originale: Shaerre zobale-ha

Regia: Mohsen Makhmalbaf

Interpreti: Mahmoud Chokrollahi, Mahnour Shadzi, Karl Maas, Tenzin Choegyal

Distribuzione: Bim

Durata: 85’

Origine: Francia/Iran, 2005

 

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