"Paranoid Park", di Gus Van Sant

Dal romanzo di Blake Nelson, altra escursione del cineasta statunitense nel cuore di un universo giovanile fremente e malato, dove la sperimentazione visiva e sonora si accompagna ancora a una discesa negli inferi vertiginosa ma, al tempo stesso, malinconica e romantica che recupera le ‘affinità sentimentali’ di Drugstore Cowboy e Belli e dannati

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Si apre con un diario-confessione Paranoid Park, altra escursione di Gus Van Sant nel cuore di un universo giovanile fremente e malato. Alla base di questo ultimo film del regista statunitense c’è il romanzo di Blake Nelson che porta l’ambientazione nell’universo degli skaters a Portland, nell’Oregon, dove si esibiscono e si incontrano nel luogo più malfamato della città chiamato appunto Paranoid Park. Si entra, come nell’ottimo Last Days, dentro una dimensione schizzata e allucinata, dove lo sguardo di Van Sant è come se si trovasse, contemporaneamente, dentro e fuori il cervello e l’anima del protagonista Alex. Questo è un giovane ragazzo di 16 anni che pratica lo skate-board che una notte uccide accidentalmente un agente di sicurezza.

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Oscuro, denso ancora delle tenebre del film precedente, ancora un viaggio all’inferno sottolineato da ralenti che ne sottolineano e/o ne ritardano il movimento, con o senza ritorno come in Elephant. C’è un momento addirittura in cui il cineasta statunitense sembra replicare, anzi riciclare certe traiettorie di quell’opera (che ottenne proprio a Cannes la Palma d’Oro nel 2003) nel momento in cui inquadra la camminata di Alex per i corridoi della scuola con la macchina da presa che lo segue da dietro. Al tempo stesso però Paranoid Park possiede anche quelle vibranti accensioni malinconiche e romantiche proprie del suo cinema in cui recupera quelle ‘affinità sentimentali’ di Drugstore Cowboy e Belli e dannati. Il rapporto di Alex con la sua ragazza Jennifer e quello con gli altri coetanei mostrano come Van Sant sappia costruire una personalissima variante da teenager-movie in cui però l’adesione e la complicità emotiva sono totali. Al di là della storia, si avverte ancora in Paranoid Park quella continua necessità di sperimentazione, presente anche in quelle tonalità buie, dove la luce e i colori sono come sottratti, come se si stiano per spegnere progressivamente, propri della fotografia di Christopher Doyle, che ha collaborato spesso con Wong Kar-wai e ha già lavorato con Van Sant in Psycho. Questa emerge soprattutto nella scena dell’interrogatorio dall’ispettore dove Alex, rivedendo la foto con il corpo del cadavere, ritorna indietro con la mente alla sera in cui l’uomo è stato ucciso. Inoltre il regista usa formati diversi: il 35 millimetri e il super 8 e il video, con questi ultimi due per poter restituire quella velocità e quel senso di precario equilibrio sullo skate-board che recupera anche quelle vertigini del bel documentario di Stacey Peralta Dogtown and Z-Boys.

Infine in Paranoid Park c’è una colonna sonora ricchissima che contamina, come spesso avviene nell’opera del cineasta, brani musicali diversi. Resta soprattutto la scena in cui Alex decide di lasciare Jennifer. Il loro dialogo è soppresso dalle note di Nino Rota del soundtrack di Amarcord. Il visivo e il sonoro in Gus Van Sant sono quindi sempre lavorati matericamente in un altro denso viaggio di scoperta e rivelazione, un percorso di apparizioni ancora spettrali come in Last Days incarnato, come in Elephant, da giovanissimi attori pienamente aderenti con la vicenda dove Van Sant li ha scelti con un casting fatto sul celebre sito di MySpace.  

 

Titolo originale: id.

Regia: Gus Van Sant

Interpreti: Gabe Nevins, Daniel Liu, Taylor Momsen, Jake Miller

Distribuzione: Lucky Red

Durata: 85’

Origine: Usa, 2007

 

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