"Lo scafandro e la farfalla", di Julian Schnabel

Dopo Mare dentro, un altro dolore in soggettiva in cui Schnabel materializza la vista e riproduce i pensieri del protagonista col mondo esterno. Alla fine però il film risulta ricattatorio e umanamente disonesto nel modo in cui gioca con le facili emozioni e alla fine il risultato è solo quello di togliere vitalità alla figura di Bauby. Presentato in concorso al 60° Festival di Cannes

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Lo scafandro e la farfalla segna il ritorno dell’artista newyorkese dietro la macchina da presa a 7 anni da Prima che sia notte. E anche quest’ultimo film, come le precedenti, porta sullo schermo una figura biografica. Se il pittore Basquiat era protagonista del film omonimo del 1996, se lo scrittore e poeta cubano Reinaldo Arenas era al centro di Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla pone al centro della vicenda la figura di Jean-Dominique Baubin. Questre tre biografie sono accomunate dal fatto di aver portato sullo schermo figure conosciute o addirittura celebri che sono tutte morte giovani.

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Nato nel 1952, Bauby è stato giornalista e redattore capo della prestigiosa rivista di moda “Elle”, prima di essere stato colpito nel dicembre del 1995 da una rarissima malattia chiamata “locked-in syndrome”, un ictus che immobilizza completamente il corpo lasciando però lucida la mente. Ed il film di Schnabel si apre dal risveglio di Bauby dove il cineasta privilegia l’angolo soggettivo del protagonista. Apre gli occhi. L’immagine è prima sfocata, poi vede i medici e prende consapevolezza della sua situazione. Non riesce a parlare e può comunicare muovendo soltando la palpebra dell’occhio sinistro. Questa però diventa il suo contatto con il mondo esterno ed è il ‘segno comunicativo’ attraverso il quale riuscirà a scrivere il libro, trasmettendo i suoi pensieri ad una redattrice della casa editrice che l’ha pubblicato, che da il titolo al film (in Italia edito da Ponte alle Grazie) che riuscirà a portare a termine poco prima di morire nel marzo del 1997 a 45 anni.

Dopo Mare dentro di Amenabar, anche Lo scafandro e la farfalla è l’esempio di un altro dolore in soggettiva. Lo sguardo prima del corpo. Schnabel materializza la vista e riproduce i pensieri del protagonista nei contatti con il mondo esterno. Se questa angolazione estrema si fosse estesa per tutto il film, si sarebbe almeno mantenuta una coerenza. La forza di Basquiat e, in misura minore, di Prima che sia notte, è nel fatto che la realtà esterna si mescolava spesso con la percezione del mondo che avevano questi artisti. Con Lo scafandro e la farfalla invece Schnabel gioca sulle emozioni facili e ricattatorie mostrando il disagio di Bauby davanti ai fili, di fronte a uno specchio. Il regista, come Amenabar, lavora sul corpo dell’attore Mathieu Amalric – uno degli attori francesi più bravi che in questo film si è però adeguato ad una prova di maniera totalmente estranea al suo stile – ma crea anche situazioni da melodramma esasperato come nella scena della telefonata con il padre (interpretato da Max Von Sydow). Schnabel però non si lega alle coordinate del genere. Vuole mostrare angolazioni multiformi attraverso un processo quasi figurativo sul corpo. Questa operazione però appare di una presunzione unica e umanamente disonesta. Lo scopo era quello di ridare vitalità alla figura di Bauby. Lo scafandro e la farfalla invece gliela toglie.

 

Titolo originale: Le scaphandre et le papillon

Regia: Julian Schnabel

Interpreti: Mathieu Amalric, Marie-Josée Croze, Emmanuelle Seigner, Anne Consigny

Distribuzione: Bim

Durata: 112’

Origine: Francia/Usa, 2007

 

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