SPECIALE "IL PETROLIERE" – Nel nome del padre (e del figlio). L'amore impossibile di P.T. Anderson

Da sempre ossessionato dalla dolente eredità della Famiglia, il cinema di P.T. Anderson è costellato di figure paterne e figli che non si incontrato mai, un rapporto di forze in eterno contrasto, la cui armonia continuamente cercata è sempre scalfita da un destino o da un’autocombustione che porta al dolore eterno. Anche il suo ultimo film non fa eccezione: un grande affresco storico-spirituale, indiscutibilmente politico, eppure stupendamente ricco di sfumature private dentro una storia che ancora una volta racconta l’amore impossibile tra padre e figlio

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il_petroliereNoi possiamo chiudere con il passato, ma è il passato che non chiude con noi”. E’ la frase che ricorre più frequentemente in Magnolia (id., 1999), film paradigmatico e centrale di tutta la filmografia di Paul Thomas Anderson. Da sempre ossessionato dalla dolente eredità della Famiglia, il cinema di P.T. Anderson è costellato di figure paterne e figli che non si incontrato mai, un rapporto di forze in eterno contrasto, la cui armonia continuamente cercata è sempre scalfita da un destino o da un’autocombustione che porta al dolore eterno. Anche il suo ultimo film non fa eccezione. A prescindere dalle indiscutibili letture politiche a cui una pellicola come Il PetroliereThere Will Be Blood  si presta, sorprende ancora una volta come di fronte alla epicità perfetta di un grande affresco storico-spirituale il cinema di Paul Thomas Anderson non riesca a fare a meno ancora una volta di raccontare comunque una storia privata, un amore mancato tra un padre e un figlio. L’affetto che nel film il magnate Daniel Plaiview prova per il piccolo H.W. è infatti ambiguo, controverso, quanto innegabile. Provate a contare i momenti ne Il Petroliere in cui l’uomo afferra, abbraccia e bacia il figlioletto. Personaggio epocale, materico e tutt’altro che privo di sfumature umane, il Daniel Plainview di Anderson-Lewis nel suo folle individualismo capitalista non rinnega mai il vincolo di sangue e l’impresa famigliare (si veda anche l’apertura, persino ingenua, con cui lo stesso accoglie il presunto fratellastro nella sua attività petrolifera a metà della storia).  Non è un caso poi che il figlio adottivo sia l’unico personaggio contro cui Plainview, nel corso del film, non riesce mai a rivolgere minacce o aggressioni – persino nella scena in cui H. W. incendia la camera da letto, la reazione dell’uomo non è esplicitamente malvagia: egli lo insegue con fare minaccioso salvo poi prenderlo in braccio nell’oscurità della notte e riportarlo dentro l’abitazione verso la macchina presa, che inquadra l’azione con ostinato pudore. Certo il sottofinale con la rottura tra i due, urlata a squarciagola dal miliardario petroliere sempre più vittima della sua cecità autodistruttiva, sembrerebbe confutare il legame affettivo del protagonista, e in parte lo fa dal momento che è emotivamente la scena forse più violenta di tutto il film. Eppure più che una revisione nichilista sui meccanismi umani che legano i due personaggi, la separazione tra Daniel e H.W. sembrerebbe riprendere più un’ossessione andersoniana che è esterna al progetto filmico in questione perché pienamente riconducibile a un’intera poetica filmografica. Per certi versi la fuga lungo il corridoio di H.W. è allora perfettamente speculare a quella di Frank T.J. Mackey in Magnolia. Una fuga lontano dal traumatico e corrotto passato paterno verso un futuro di libertà, che poi quasi sempre si rivela illusorio. Perché è questo il punto centrale delle storie concepite da Anderson: “Noi possiamo chiudere con il passato, ma è il passato che non chiude con noi”. Fuggire dai padri è necessario quanto inutile, perché è proprio da essi che alla fine bisogna tornare per chiudere i conti con un complesso edipico indelebile, dilaniante, sempiterno.

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sydney_1Come non partire da Sydney (Hard Eight, 1995) allora, il primo bellissimo film scritto e diretto dal regista californiano, in cui più che a un noir ambientato a Las Vegas assistiamo alla struggente parabola di un uomo distrutto dal senso di colpa per aver ucciso il padre di un ragazzo col quale tenterà in tutti i modi di instaurare un rapporto di affetto e protezione. All’inizio vediamo John (John C. Reilly) accovacciato su un marciapiede senza neanche un soldo. E’ l’improvviso ingresso dell’anziano Sydney a cambiargli la vita. L’uomo – apparentemente senza alcuna motivazione – inizia ad aiutare il ragazzo in tutti i modi: lo porta con sé a Las Vegas, gli insegna tutti i trucchi possibili per vincere al gioco d’azzardo, lo avvicina alla bella e “perduta” Clementine, spingendo implicitammente lui e la donna verso un’unione impossibile quanto irrinunciabile per il mondo fatto di amore/dolore di P.T. Anderson. Solo alla fine scopriremo le dinamiche di morte e colpa sottese all’amore di Sydney nei confronti di Jack. Un amore sincero e disperato, quanto impossibile da portare a compimento proprio perché macchiato dal peccato originale.

Ovviamente nel cinema del giovane cineasta californiano la figura archetipica paterna viene spesso compresa e sostituita da quella ben più estesa del nucleo famigliare tutto. Esempio emblematico è quello di Boogie Nights (id., 1997), in cui il rapporto conflittuale che il diciassettenne Eddie Adams (interpretato da Mark Wahlberg) ha con i propri genitori viene appena accennato a inizio film e subito sostituito con quello ben più caldo e appagante – eppure parimenti illusorio – consumato all’interno della troupe-family capitanata dal “padre” del cinema hard Jack Horner (Burt Reynolds) e dalla attrice “madre” Amber Waves (Julianne Moore). Anche qui, come in Sydney, il tentativo quasi ossessivo di ricomporre artificialmente un legame di sangue, va a sbattere con un bilancio finale spietato e illusorio, dove la critica dell’american dream si con-fonde con quella, apparentemente minore ma assai più fondativa se vista in ottica autoriale, del fallimento privato e del dolore intimista nel microcosmo procreatore.

magnolia_1Da qui alla teorizzazione compiuta di questa tematica il passo è breve. Magnolia, il terzo film di Paul Thomas Anderson, ne è il capolavoro smisuratamente imperfetto e personale. Concepito immediatamente dopo la morte di cancro di Ernie Anderson, padre del regista e famoso conduttore televisivo e radiofonico, Magnolia  è un grande affresco morale sulle colpe dei padri e sul perdono dei figli, ricco di riferimenti autobiografici, dove la malattia terminale e l’apocalisse biblica sono l’unica purificazione possibile per genitori dannati e figli psicotici abbandonati a un individualismo  patologico e lacerante. L’ambientazione nella natìa San Fernando Valley e, più in particolare, nel ben conosciuto mondo della televisione dove si intrecciano tutte le storie del film, inevitabilmente contraddistinte dallo scontro generazionale, stanno a confermare la profonda visceralità di questo progetto nella filmografia del grande e giovane regista americano. Persino paradossale che alla sua uscita in sala Magnolia sia stato da non pochi addetti ai lavori tacciato di artificiosità e barocchismo, quando invece è forse ancora oggi il suo film più sincero. In tal senso solo apparentemente un’opera stramba e meravigliosamente inventata come Ubriaco d’amore (Punch – Drunk Love, 2002) rimarrebbe fuori da tale poetica. Se qui infatti la figura paterna viene a mancare, è perché sostituita e moltiplicata dalla sette sorelle di Barry Egan (A. Sandler), comica variazione sul tema inevitabilmente ricca di elementi paranoici e alienanti. Anche qui la fuga del personaggio sembrerebbe rappresentare l’unica via di scampo per il folle protagonista, se non fosse che Ubriaco d’amore è un film programmaticamente tronco e non-concluso, come se Anderson avesse paura a spingersi oltre un ipotetico progetto di salvezza. Meglio fermarsi prima, magari. Davanti a un abbraccio tra due amanti che in solo colpo è fine ed inizio. Senza più capezzali, perdoni, o colpe da espiare.

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