SPECIALE "The New World" – A piedi nudi nel mondo

Nelle giravolte senza costrutto che Q'Orianka Kilcher danza di fronte alla cinepresa, Malick impressiona la temibile forza della semplicità, l'inarrestabile energia di una verità senza veli.

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Ecco finalmente che, per primi nel mondo da questa parte dell'Atlantico, possiamo vedere, riflettere, discutere del nuovo film di Malick. Gli altri dovranno aspettare, chi un paio di settimane chi qualche mese; ma nel frattempo gli elementi immaginari – iconografici/di fantasia – che da poche ore si sono materializzati davanti ai nostri occhi, avranno sedimentato a loro volta immagini e fantasie. Danza, davanti alla cinepresa ed allo straniero bianco, la principessa indigena. Il suo gioco, certamente puro, privo di malizia, è tutt'altro che privo di conseguenze. In The New World, proprio come in questa immagine, abbiamo incontrato ancora la traduzione visiva di una storia semplice, esattamente come quelle che Malick ha raccontato finora. Semplice, come le conclusioni più profonde alle quali giunge chi insegue infaticabilmente la verità. Anche questa volta Malick ha mostrato la propria attitudine ad utilizzare il mezzo cinematografico per tradurre la propria idea di conoscenza, per veicolare la propria filosofia, senza il timore di sapersi sotto la lente d'ingrandimento di un intero mondo del cinema (e non solo) ancora incerto sui reali motivi che hanno decretato il suo successo. Un Malick che non si preoccupa delle "spinte modernizzatrici" che, dicono, vedrebbero ormai finito il cinema così com'è stato finora: superato, decrepito, relegato dalle nuove generazioni al ruolo di antiquariato; quelle spinte che sembrerebbero volerlo zippato, ridimensionato, cellularizzato, ed al contempo spettacolarizzato, urlato, digitronizzato, da telecomandare nella solitudine del palmo della propria mano in un atto individuale – anzi, anti-collettivo – più masturbatorio che volontario. Un Malick che invece, con coraggio e naturalezza, orchestra due ore e mezza di immagini elementari (in senso stretto: aria, acqua, terra, fuoco) scrollando le spalle di fronte al dubbio. Nelle giravolte senza costrutto che Q'Orianka Kilcher danza di fronte alla cinepresa, Malick impressiona la temibile forza della semplicità, l'inarrestabile energia di una verità senza veli. La principessa dei nativi immersa nel verde delle foreste della Virginia supera il luogo comune della "buona selvaggia", buona sì, ma stupida e facilmente manovrabile. Malick la innalza al ruolo di semidea dei boschi, conferendole un potenziale magico che le permette di far assaporare al potente presidente bianco, forte ma anodino come solo un John Smith qualunque può essere, la dolcezza dell'abdicazione. La sua danza è violenta, della violenza di cui è capace la libertà; il suo gioco è pericoloso, del pericolo che viene dalla verità. E tutto questo Malick è stato in grado di filmarlo con semplicità, con la tremenda purezza di un occhio educato a separare complessità degli eventi e limpidezza del discorso, verbale o filmico che sia.
Semplice e cristallina la danza. Semplice e cristallina la narrazione per immagini. Nessuna novità rispetto ai feroci omicidi de La rabbia giovane, all'amore tragico de I giorni del cielo e alla logorante attesa della morte de La sottile linea rossa. Solo che, in questo caso, a nessuna novità corrisponde la gioia nel vedere riconfermato tutto il potenziale evocativo del cineasta-filosofo Malick.

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