SPECIALE DARIO ARGENTO – L'arte della manipolazione: "Quattro mosche di velluto grigio"

Quattro mosche di velluto grigio è la realizzazione completa dell’ambizioso sogno autoriale del controllo assoluto di ogni dettaglio della messa in scena: Dario Argento gioca non solo con lo spettatore, ma anche con il suo protagonista, e inizia a farsi beffe della verosimiglianza. Leggi tutti gli articoli dello speciale

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Interpreti: Michael Brandon, Mimsy Farmer, Jean-Pierre Marielle, Bud Spencer, Stefano Satta Flores, Oreste Lionello, Marisa Fabbri, Calisto Calisti
Durata: 104’
Origine: Italia, 1971

Distribuzione Home Video: non disponibile

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Roberto Tobias, il più autobiografico dei personaggi di Dario Argento – non solo nella vaga somiglianza fisica – aspetta passivamente che l’assassino entri in casa sua. Esasperato da ogni precedente fallimento di indagine, non può fare altro che attendere la sua decisione di rivelarsi.
Paradossalmente, quello che è considerato uno dei film minori del regista romano, condannato all’oblio e all’estinzione dalla mancanza di copie ufficiali, salvato solo da bootleg di scarsa qualità che ne permettono ancora la sopravvivenza e la visione, è anche quello in cui inizia a concretizzarsi il sogno tipico di ogni regista di suspense: il completo controllo degli elementi della messa in scena, il suo gioco vincente non solo con le aspettative dello spettatore, ma anche con la volontà del suo stesso protagonista.
A differenza dei suoi eroi/eroine precedenti e successivi, si stenta a ricordare un personaggio tanto frustrato in ogni sua ambizione come quello di Roberto Tobias: incastrato in un omicidio che crede di aver commesso, ingannato e ricattato, mincacciato di morte, sottoposto a tortura psicologica, è la più passiva delle creazioni argentiane, una vera e propria pedina su cui il regista sadicamente riversa tutto il suo potere di costruzione, come un padre che divora la sua stessa creatura.
Stranamente e con una certa inclinazione accademica, Quattro mosche di velluto grigio è considerato il film meno ispirato di Dario Argento, quello in cui la sceneggiatura è meno curata, condita da accenti comico/grotteschi (l’investigatore omosessuale, il barbone filosofo (Dio)mede, gli intermezzi con Oreste Lionello) che non si fondono bene con l’atmosfera dei thriller serrati come L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code. Più propriamente, questo presunto scivolone potrebbe anche essere associato ad una profonda e palese insofferenza verso le regole classiche della continuity, e ad un desiderio sempre più pressante del regista di essere sciolto dal vincolo della verosimiglianza, esigenza che troverà compimento in film come Suspiria e Inferno.
Non è solo nel pretestuoso espediente dell’ultima immagine della retina, sovraimpressa nell’occhio della vittima (un’invenzione pittoresca e fantascientifica), che Argento dimostra questo disprezzo verso l’esigenza delle credibilità filmica, quanto piuttosto nelle due sequenze meglio riuscite del film: l’assassinio della domestica di casa Tobias e quello del private eye Arrosio. Nel primo, Parco Valentino a Torino subisce una rapida ed ingiustificata metamorfosi dal tardo pomeriggio alla notte, dalla luce al buio, dalla folla di un giorno normale – coppiette sulle panchine e bambini sulle altalene – alla solitudine di un labirinto di siepi, in cui  Marisa Fabbri si trova improvvisamente a dover scappare in un claustrofobico e irreale cunicolo; nel secondo, la fermata Lotto della metropolitana milanese viene ingiustificatamente privata di vita umana – persone che si affaccendano sulle scale – lasciando l’uomo nella non-solitudine di un nobody’s shot, in una situazione poi diventata un cliché del cinema di genere.
La storia non è l’unica vittima di questa forzatura (il fatto che il tentativo non sia sempre riuscito non toglie il fatto che Argento abbia imposto il suo sguardo alle cose), ma quindi anche lo spazio scenico: Roberto riceve una lettera, e si scopre che il suo indirizzo è una fantomatica Via F. Lang, di un luogo genericamente definito “città” e che è un appropriato quanto inesistente collage di riconoscibili luoghi di Torino, Roma e Milano, in ripresa di quella che sarà poi una costante cifra poetica del suo cinema (si pensi solo alla torinese Piazza CLN di Profondo Rosso).
Non solo, nel gioco manipolatorio del regista, viene coinvolto anche il tempo, distorto quasi sempre con effetti stranianti: il cuore palpitante dei titoli di testa, i flashforward della decapitazione, fino al meraviglioso ralenti dell’incidente automobilistico finale, realizzato con una Pentazet, in cui la durata stessa viene dilatata al servizio dell’effetto voluto dall’autore/demiurgo.
Un regista che non interviene più nei film prestando soltanto le mani all’assassino (sono sempre le sue), ma anche sui suoi stessi personaggi: non è solo l’indifferente creatore, è qualcuno che spinge il suo protagonista in un teatro abbandonato, lo spinge a credersi l’esecutore di un omicidio che non ha commesso, lo spia dall’alto, e lo fotografa mettendosi una maschera da carnevale.

NOTE e CURIOSITA'

Il freddo rapporto matrimoniale tra Michael Brandon (Roberto Tobias) e Mimsy Farmer (Nina), rispecchia la relazione reale tra lo stesso Dario Argento e l’antiquaria e restauratrice Marisa Casale, da cui divorzierà alla fine delle riprese. Dal loro breve legame è nata Fiore, la prima figlia del regista romano.
Proprio Argento ha commentato “Quattro mosche di velluto grigio era un film molto autobiografico. Io cercavo un’attrice che somigliasse a mia moglie e un attore che somigliasse a me, e così girai tutto il mondo per cercarli”.

Il famoso incidente finale, con un ralenti esasperato, è stato girato con una Pentazet, fabbricata nell’allora Germania Est, capace di filmare fino a 36mila fotogrammi al secondo.

Fulvio Mingozzi, attore feticcio di Dario Argento, appare come il manager discografico di Roberto Tobias, rispondendo al telefono nello studio di registrazione

Del film non esistono edizioni home-video ufficiali, né in VHS né in DVD, sebbene gli appassionati ne attendano una da decenni. I diritti di Quattro mosche di velluto grigio sono al centro di un intricato garbuglio legale sul quale nessuno dei protagonisti (Dario Argento soprattutto) ha mai provato a fare chiarezza. L’unico modo per reperire il film è una serie di approssimativi bootleg (tra l’altro in pan-scan e con alcuni tagli) che circolano sulla rete. La versione migliore (integrale, ma con formato sbagliato) è una registrazione da Rete4 di una quindicina di anni fa.

Tra le varie location utilizzate nel film, oltre alla già citata metropolitana milanese e a Parco Valentino a Torino: la baracca di Bud Spencer è sotto Ponte Marconi a Roma; lo studio dell’investigatore Arrosio è la Galleria Subalpina di Torino, la fontana dietro cui Stefano Satta Flores incontra Laura Troschel è quella di Piazza dei Quiriti a Roma.

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