TORINO 25 – La canzone di Antoine: incontro con il regista di 'Song'

Antoine Barraud in una conversazione esclusiva ed informale con Sentieri Selvaggi a poche ore dalla conclusione della sconquassante proiezione al Greenwich del suo bellissimo lungometraggio d’esordio, incluso nella sezione La Zona, ci parla delle sue passioni e delle sue ossessioni, della lavorazione di Song, del suo cinema e di quello degli autori che stima.  (Video)

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Song è un film in formato DVcam, quindi su supporto digitale. Quanto ha influito questa scelta di carattere economico sugli aspetti riguardanti l’estetica dell’opera? Pensiamo allo sconvolgente lavoro sia sull’immagine che sul sonoro, che ci è sembrato stupendamente complesso e stratificato…

 

Antoine Barraud: Song avrebbe dovuto essere un film in pellicola. Sino ad ora ho girato su pellicola tutti i miei corti. Song è comunque adattato al formato cinematografico dei 16/9. Spero di potermi prima o poi permettere il gonfiaggio in 35mm di questo, o del mio prossimo lungometraggio. Vagando però per Taipei con la troupe ridotta all’osso grazie alla ‘leggerezza’ del mezzo, abbiamo potuto catturare con l’occhio della videocamera tutta una serie di meravigliosi squarci di vita e paesaggi senza perdere troppo tempo a preparare l’inquadratura. Una buona parte delle scene in giro per la città sono infatti situazioni reali, come quella del karaoke: io e le altre tre persone che formavano la troupe del film eravamo lì, e abbiamo cominciato a riprendere. Ci siamo quindi ritrovati con una grossa mole di materiale che mancava totalmente di un audio utilizzabile: l’emittente televisiva che ha coperto i costi del film aveva espressamente richiesto che in un’operazione di questo tipo, girata in DVcam e senza seguire uno script ben delineato, l’aspetto sonoro fosse il più professionale possibile. Ed infatti il tecnico del suono era la persona più qualificata tra di noi: circa un anno dopo aver girato le prime sequenze, quando siamo tornati a Taipei, se ne è andato in giro per la città con un microfono a catturare voci, rumori, suoni, frammenti sonori. Poi si è occupato personalmente anche dell’aspetto audio in postproduzione, creando un incredibile impasto di dialoghi, musica e suoni della città che solo lui, che aveva ‘procurato’ il materiale, sarebbe stato in grado di padroneggiare. Eppure credo che il lavoro sul sonoro di questo film non finirà mai: in realtà c’è ancora qualche livello da sistemare, come mi sono accorto riguardandolo adesso in sala insieme a voi – in un certo senso resterà sempre un sonoro incompleto.      

 

Il supporto ci sembra che ti abbia permesso di ‘catturare’ l’oggetto del tuo sguardo in maniera particolarmente potente. Cosa ci puoi dire riguardo all’evidente importanza dei corpi nel tuo film – con questo sublime ossessionarsi sulle mani (che si stringono, si toccano, si rifiutano, vengono leccate, coperte di scritte e poi rilavate…), e su questa struggente fascinazione per i cieli ed i soffitti?

 

Porto sempre con me un block notes dove mi piace mettermi ad abbozzare qualche disegno, ed effettivamente quasi sempre, inconsciamente, mi metto a disegnare cieli, o il soffitto della mia camera mentre sono steso sul letto, improvvisamente squarciato da un raggio di luce che si apre un varco attraverso. Un anno prima di girare Song sono stato parecchio male, e non dimenticherò mai il soffitto di quell’ospedale di Taipei in cui credevo di stare per morire, mentre un dottore mi faceva una visita dolorosissima: ho messo una scena sostanzialmente analoga nel film, girata nella stessa stanza dello stesso ospedale in cui è avvenuta realmente, perché in quei terribili istanti ero convinto che quel soffitto sarebbe stata l’ultima cosa che avrei visto in vita mia. Mi piace lavorare sul mio stesso corpo perché sono attore e screenwriter prima che regista, ma sono convinto che Song sarà l’ultimo film da me diretto in cui interpreto il protagonista – l’ho fatto già in tutti i corti: nel primo e nel secondo episodio di Monstre continuo a cambiare, a trasformarmi in un mostro. Mi affascina l’idea del mio corpo che si modifica – anche Deluge trattava di un argomento simile: una casa che si riempie sempre di più di acqua, abitata da persone che non fanno altro che leccarsi a vicenda. Mi piace concentrarmi sulle varie parti del corpo, e sul loro interno: nei miei corti precedenti i titoli di testa scorrevano su radiografie di denti e stomaci, e per il prossimo film ho disegnato dei credits che compariranno su di un paio di mani. Vado matto per le illustrazioni analitiche sui libri di anatomia medica, o per quelle bambole asiatiche con gli organi in bella mostra, completamente apribili e smontabili.

 

Un film quasi completamente improvvisato, ci hai detto, con una sceneggiatura fatta di una serie di appunti assemblati – eppure, il personaggio che interpreti non fa che scrivere frasi e parole, di continuo: sul suo stesso corpo, decorandosi le mani di un vero e proprio diario personale trascritto sulla pelle delle dita e dei palmi…

 

E infatti non fa che andare in giro alla ricerca di penne, di cui si appropria, per poter continuare a scriversi addosso. Odio la gente che considera ‘scrivere’ solo lo scrivere al pc: nella realtà io non faccio che segnarmi appunti ed intuizioni sulle mani, davvero come un diario destinato a svanire lentamente dalla mia pelle, giorno dopo giorno lavato via sempre un po’ di più, sempre più indecifrabile e evanescente sul mio palmo. Quello in cui si trova il protagonista del film nella sua situazione iniziale è effettivamente un circolo chiuso ed autoriferito – è per questo che ho sempre pensato che la prima parte del film fosse in qualche modo autosufficiente: il protagonista si scrive continuamente addosso, nella telefonata iniziale una donna lo accusa di non averla mai amata davvero, e tutto si chiude con quella scena di masturbazione in cui si lecca lo sperma dalle mani – continuando a sentire unicamente il suo stesso sapore. L’incontro con il personaggio interpretato magnificamente da Lu Yi Ching si traduce allora in un allargamento del cerchio, che spezza la circolarità autoreferente della vita del protagonista introducendo un elemento nuovo, un contatto con l’altro che non è un’apertura quanto un’estensione della situazione precedente: è per questo che ad un certo punto il personaggio inizia a prendere appunti a penna anche sulla schiena di Lu Yi che dorme. Più che un tentativo di comunicazione, è l’attrazione per uno spazio nuovo e immacolato da conquistare riempiendolo di disegni e parole.

 

Lu Yi Ching è una straordinaria interprete di questo film, in un ruolo piuttosto diverso da quello che è abituata a fare con Tsai Ming Liang…

 

Tsai Ming Liang l’ho incrociato per caso a Parigi, scendendo da un aereo. Usciti dall’aeroporto abbiamo preso la stessa strada, a piedi, e giunti ad un semaforo rosso i nostri sguardi si sono incrociati. Incredibilmente, mi ha riconosciuto. Mi ha profondamente emozionato scoprire che conoscesse me e il mio lavoro. So che anche lui sta lavorando ad una Medea: è curioso, perché anch’io ho intenzione di realizzare un adattamento della tragedia di Euripide, e Tonino De Bernardi, a cui sono profondamente legato da vincoli di amicizia ed 'omonimia', e che sono andato subito a trovare a casa appena sono arrivato qui a Torino, ha appena concluso il suo bellissimo Medee Miracle che è passato a Venezia. E’ una bella sensazione essere in un certo senso in affinità e comunicazione con questo cinema che sfugge da ogni definizione precisa e soffocante, un cinema libero e non incasellabile che non si basi irrevocabilmente su di un soggetto da seguire. Perché nella realtà nemmeno la vita segue un soggetto.  

 

 

Un frammento dell'incontro di Sentieri Selvaggi con Antoine Barraud: 

 

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