Torino 25 – "Jeonju Digital Project 2007: Memories" di Harun Farocki, Pedro Costa, Eugène Green
Memories, progetto voluto dal festival coreano Jeonju, per la prima volta proposto a tre registi europei, parla di fantasmi catturati attraverso il digitale: l’ autopsia su pellicole di deportazione, la visione radicale del tempo e un corteggiamento rohmeriano
Respite, di Harun Farocki
In Respite si aggirano tra le macerie ordinate – e perlopiù solitamente ridotte a poco più che una ricognizione turistico-museale in nome di una doverosa “memoria” – dell’esperienza malvagia assoluta, e Harun Farocki si interroga sulla necessità di creazione e di interpretazione delle immagini, spezzando il circolo della storiografia, con un lavoro di autopsia scientifica che fin dallo stile scelto getta una luce importante su uno degli aspetti fondanti della parabola dello sterminio nazista: una produttività industriale dove la produzione in serie era l’annientamento, quanto più possibile igienico e organizzato, di esseri umani, e la reificazione risolutiva si allenava a un esercizio tanto rigoroso che perfino il reificatore non poteva che sentirsi anch’esso cosa: Farocki racconta infatti le figure della banalità del male, distaccandosi dalla retorica della peculiare ferocia dei mostri hitleriani, scovandone l’eccezionalità proprio nella burocrazia del male in cui uomini normali operavano ogni giorno, una visione scomoda perché si sente sempre il bisogno di spiegarne l’abiezione totale col ricorso a un lato sinistro, quasi soprannaturale, a un’oscurità distinguibile dall’indifferenza. Come riflettere per immagini sull’enigma di un potere che è diventato così radicale da distruggere carnefici, testimoni e vittime nella generale risposta del non senso: Hier war kein warum, «Non c’era alcun perché» ?. Ci si sforza di superare l’impronunciabilità dell’esperienza della deportazione portando in superficie le uniche immagini esistenti della partenza dei treni, specificando che sono state volute da coloro che le organizzavano, e lo si fa nel più assoluto silenzio, con l’aiuto di segnalazioni grafiche, cerchietti rossi, dettagli, fermo immagine, momenti cruciali se a riprendere “la vita di tutti i giorni” è proprio uno dei deportati di un“campo di transito” verso Auschwitz e Bergen-Belsen, ucciso come tutti gli altri poco dopo la sua permanenza al campo, realizzatore di un inno alla produttività in 16mm commissionato da Albert Gemmeker, comandante delle SS. In questo filmato, il campo di Westerbork viene ripreso come un’allegra e industriosa comune, tanto orgogliosa del proprio “rendimento” da sviluppare un vero e proprio logo e grafici come una qualsiasi azienda (le immagini del lavoro manuale venivano esaltate con il rallentamento) ma attenzione: gli impiegati dell’ efficiente ospedale, i giocatori di calcio, i ballerini di buffi spettacoli di varietà (uno dei momenti più agghiaccianti, alla luce della visione a posteriori), gli operai che si riposano tranquillamente in una specie di straniante déjeuner sur l'herbe, gli stessi sorveglianti della polizia del campo, sono tutti detenuti (e saranno tutti deportati): tutti fantasmi del 1941 simili a quelli che Levi ricordava come “i corvi del crematorio” (i deportati stessi costretti a sorvegliare l’andamento delle camere a gas e a mandare a morte coloro che vivevano la loro medesima condizione) : se ai deportati stessi, alle vittime, viene assegnato il ruolo di carnefici, la deiezione è completa: la specificità terribile sta nell’integrare anche le vittime in quell’ingranaggio industriale di cui moriranno. Quelli che vediamo salire sui treni verso Auschwitz indossano ancora i loro cappotti e cappelli, portano borsette e valigie: sembrano genericamente preoccupati, ma totalmente ignari di cosa li aspetta, salutano con la mano, perfino, sorridono timidamente alla cinepresa: solo il volto di una bambina di 10 anni sembra congelato nel presentimento della morte, motivo per cui, ipotizza Farocki, il filmato non indugia mai, a parte questa eccezione, sui primi piani. Pericolosi.
The Rabbit Hunters, di Pedro Costa
I corpi di Fonthainas nel cinema radicale di Pedro Costa sono per sempre homeless: oltre al senso letterale, privati dell’occasione di un’anima prima che di una casa, privati di un tempo esistenziale (il loro, dilatato e feroce, non è presente né passato, e più di tutto non è futuro, e non viene spiato o manipolato dal cinema), camminano come morti ancora bisognosi di mangiare, esprimendosi in un linguaggio che perde ogni istanza di travestimento e si fa di una semplicità esoterica, vagando eternamente alla ricerca di una dignità essenziale e non di una possibilità di sopravvivenza, che viene loro immancabilmente negata (Casa de Lava, O quarto da Vanda). Qui i capoverdiani si svegliano come chi si desta da un sogno, accennano una povera ginnastica da strada e si ritrovano definitivamente ai margini di un paesaggio ostinato di smantellamento, persone e cose profanate, cose profanate, spazi che distruggono chi li abita, territorio di infinito mancamento spirituale e fisico che ingoia chi lo percorre distribuendo spettri mai pacificati: case fantasma, strade fantasma, clandestini mai autorizzati a vivere: mille vite fa Ventura (l’uomo antico, il vecchio di tempi perduti) era un operaio, e alla finestra con Alfredo, che rievoca come sia stato scacciato dall’appartamento dalla moglie, racconta ormai soltanto delle sue esperienze mortali, mentre gli viene offerto del cibo in un retrocucina viene ammonito dolcemente sul suo “lasciarsi andare” e la sua risposta inoppugnabile è soltanto: sono inseguito dai fantasmi. Anche in Juventude
Correspondences, di Eugène Green
Anche Eugène Green, autore di teatro barocco, riproduce fantasmi (quello della pellicola, e quello del giovane suicida Eustache – forse un omaggio all’immenso regista di