CANNES 61 – "Leonera", di Pablo Trapero (Concorso)

leoneraGiunto al suo quinto film, ma con ancora l’eco del suo esordio Mundo grùa (1999) a fargli da biglietto da visita, Trapero è forse l’esponente meno apparentato alla New Wave argentina e lo dimostra con questo film sicuramente sincero ma a tratti indeciso sul da farsi. In Concorso a Cannes 2008. VIDEO TRAILER

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Se ha ancora senso ragionare sopra la New Wave argentina dopo che, ormai da 3 o 4 anni, rassegne, dibattiti e omaggi sembrano fiorirle continuamente intorno, è probabilmente perché c’è una grande confusione attorno a questa cinematografia e a questo “gruppo” di autori, oggi trenta-quarantenni, che ha portato una ventata di novità sul cinema sudamericano. E se di “gruppo” parliamo, possiamo tranquillamente affermare che Pablo Trapero ne è l’esponente meno “affiliato”, visti i pochi elementi di continuità con gli altri. Giunto al suo quinto film, ma con ancora l’eco del suo esordio Mundo grùa (1999) a fargli da biglietto da visita, Trapero non ha il talento dei vari Daniel Burman e Lucrezia Martel (anch’essa in Concorso quest’anno a Cannes), Lisandro Alonso e Rodrigo Moreno, eppure sembra proseguire quantomeno onestamente il proprio personalissimo percorso, questo almeno gli va riconosciuto, tutto fatto di sguardi intimi e controllati, confinati però spesso in spazi cinematografici inauditi e malsani. È questo certamente il caso di Leonera, letteralmente una discesa negli inferi di una giovane ragazza-madre, sprofondata non si sa perché né per come in carcere, e da lì costretta ad inventarsi una famiglia anche se non ha assolutamente idea di cosa comporti. La cinepresa di Trapero segue sinuosa il travagliato viaggio di Julia (interpretata in maniera altalenante da Martina Gusman, già protagonista di Nacido y criado, il film precedente dell’autore argentino), forse attardandosi una volta di troppo nel descriverne sterilmente le azioni, avendo però l’ambizione di combinare l’intimità della giovane madre al suo contrario, ad una presunta universalità insomma, solo per conferire alla storia un respiro più ampio. Trapero, infatti, sembra essere molto più a suo agio in quei momenti leggeri, anche romantici, di cui è ricco il film che in quelli drammatici, soprattutto se figli di una confusa idea dell’azione: per cui risulta assai falsa, nonché mal girata a causa di un’immobilità assurda della macchina da presa, la scena della rivolta carceraria, mentre al contrario funzionano egregiamente quelle scene in cui il film sembra rinchiudersi in un universo intimo, privato. Quand’è l’amore, insomma, che imprime la pellicola allora sì che si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di agile, di leggero, di etereo. La sua Julia il regista l’ha messa disperatamente alla ricerca dell’amore, scegliendo poi di sospendere quei pochi attimi sparsi d’amore in un atmosfera magica, rarefatta, quasi sognante. Come quelle carezze tra lei e il bambino, o quei baci tra la stessa ragazza e la sua amante carceraria, o ancora quando si incontra per un intimo abbraccio con un suo amico/amante nonché principale accusatore (salvo poi scoprire,

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attraverso un leggero movimento di macchina, che così intimo non è visto che quattro guardie carcerarie assistono impassibili alla scena). Ed è proprio grazie a queste piccole parentesi che la parabola di Julia assume d’improvviso i connotati della speranza, per poi sfociare in quella fuga finale verso la libertà, dove il simbolico attraversamento di un fiume, una Palude Stigia, porta la ragazza in un altro paese (il Paraguay, in questo caso) dove sognare un altro futuro per sé e per il proprio bambino. E Trapero, dopo averla seguita per 5 anni nelle sue peregrinazioni carcerarie, una volta attraversato quel confine, sembra impossibilitato a condividerne ancora l’esistenza, tanto da rimanerne distante. Come se da quel momento in poi il cinema debba restare fuori.

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Leonera – Trailer

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