SPECIALE "E venne il giorno" – Inestimabile libertà

I titoli scorrono, lo sguardo è già allertato. Shyamalan (de)costruisce una triade di tensione, sentimento e angoscia esistenziale che prende alla gola, tira le fila della suspense con un’arte che sembra già consumata e ben oltre la struttura, immortala scene tagliate al millimetro senza bisogno di pulsioni visive in eccesso. E venne il giorno spinge ancora più in là la libertà che il regista aveva già lasciato esplodere in The village

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the happening
Hitchcock ha cominciato la sua carriera (anche) disegnando titoli di testa. E dal primo fotogramma, quasi ad omaggiare inequivocabilmente il maestro britannico, Shyamalan si insinua negli occhi con inquietudini di musica e vortici di nuvole. I titoli scorrono, lo sguardo è già allertato. In questo ultimo lavoro, più che in qualsiasi altro della sua filmografia, Shyamalan (de)costruisce una triade di tensione, sentimento e angoscia esistenziale che prende alla gola, tira le fila della suspense con un’arte che sembra già consumata e ben oltre la struttura, immortala scene tagliate al millimetro senza bisogno di pulsioni visive in eccesso. E venne il giorno spinge ancora più in là la libertà che il regista aveva già lasciato esplodere in The village, una capacità magistrale di passare da un film all’altro dentro la stessa opera – questa volta, dal thriller apocalittico all’horror nella sua forma più pura, quella rarefatta che resta appiccicata addosso, quella dove la paura non si vede, soltanto si respira, ad ogni fotogramma. Dagli spazi agorafobici di una silenziosa ribellione naturale al luogo dell’orrore per eccellenza, la casa che si manifesta come rifugio e salvezza per diventare incubo e trappola e sopraffazione. E poi trasformarsi di nuovo, ancora, in qualcos’altro – luogo delle relazioni essenziali. Come nella scena più rischiosa del film – quella che è davvero una dichiarazione d’amore che costringe ad arrendersi alla mancanza di parole che possano descriverla – Shyamalan compie senza esitare, attraverso tutta la pellicola, una riduzione progressiva verso un nucleo (la coppia formata da Elliot e Alma e la bambina che è stata loro affidata), verso l’irriducibilità dei sentimenti. Immediatezza che lascia lo spettatore con un senso di iperossigenazione, potenza che sospinge Shyamalan al polo opposto di quei registi che, come Haneke, tendono costantemente alla distruzione per la distruzione, senza rabbia e senza veleno. Senza la potenza con cui E venne il giorno racconta il cuore dell’essere umano e continuamente, felicemente si arrende all’innegabilità dei sentimenti e di ciò che va comunque oltre, o contro, la razionalità. Senza la capacità di trasformare gli attori in esseri sperduti fuori del mondo, come chi “non si dà mai per vinto” (Mark Wahlberg) o chi non riesce a mostrare un brandello della propria interiorità (Zooey Deschanel). Senza il coraggio di porre la domanda che Shyamalan, mentre i suoi protagonisti compiono l’azione più disorientante e dolorosa da guardare – il suicidio – e mentre lottano per l’essenziale, mentre cercano una soluzione, mentre continuamente si riuniscono e si dividono disegnando nello spazio geometrie innominabili, pone a noi: dov’è la salvezza, nell’unione o nella separazione tra noi e gli altri esseri umani?

 

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